Che strana cosa chiamarsi Ottavio ed essere figlio unico. Che poi all’epoca, fine Ottocento, era una rarità essere figli unici. Colpa di suo padre, che l’ha voluto chiamare come il suo, di padre: Ottavio perché ottavo di nove fratelli. Un grande stronzo suo padre. Soprattutto il giorno che uscì di casa e più tornò. Fuggito chissà dove e con chissà chi. Se la doverono vedere da soli lui e sua mamma. In qualche modo se la cavarono. Più o meno decentemente.
E se la cavarono perché di gente con spalle grosse serve sempre e a lui non mancavano. Anzi. A tal punto ce le aveva grosse che Ottavio non lo chiamava più nessuno, il suo nome l’aveva perso chissà dove, fuggito come il padre: al Żigànt, tutti lo chiamavano così, al Żigànt, come la fontana del Nettuno a piazza del Nettuno a Bologna. E Żigànt lo era: più di un metro e novanta per chissà quanti chili. Tirava su di tutto, al Żigànt, e da solo. Ed era infaticabile. A tal punto infaticabile che dopo aver lavorato lo si trovava quasi sempre alla Montagnola a fare le corse in bicicletta con qualche scapestrato con più bajûc e boria di lui. Se li metteva spesso alle spalle.
Pedalava e di gran lena, sul giro e sul giro e mezzo era imbattibile. Non ce ne era per nessuno. E mica solo a Bologna. Venivano pure da Modena e da Reggio per sfidarlo. Uno anche da Firenze. Tornarono tutti a casa battuti. Al Żigànt non si batteva. Almeno sul giro e sul giro e mezzo, perché se allungavi la distanza lo si batteva eccome. Gli proposero pure di fare lo sprinter nei velodromi. Partecipò a qualche riunione, tirò su qualche lira, soprattutto capì che se ne tiravano su di più stando fermi sui pedali o inventandosi modi per stupire i presenti. E quando si stupiscono gli spettatori questi, chissà perché, aprono il portafoglio e gettano qualche moneta per terra. E a lui di lira ne serviva perché tra lavoro in cantiere e bicicletta gli saliva una gran fame, che la cucina della trattoria non sarebbe bastata. Lui però ne usciva sempre e solo con un brodino e un po’ di bollito. Quello si poteva permettere.
Nulla per il Żigànt era più importante che mangiare. C’aveva certi buchi allo stomaco a volte che si sarebbe divorato pure la bicicletta, fritta ovviamente, che una volta fritto tutto diventa buono. Non lo fece mai. E per fortuna, perché proprio la bicicletta gli imbandì la tavola ogni santa sera e pure a mezzodì.
Aveva appena finito uno dei suoi numeri di surplace, lui in piedi su di un pedale con la bici a quarantacinque gradi rispetto al terreno tenuta solo per il manubrio, quando un tizio gli si avvicinò. Si complimentò con lui, poi gli chiese: «Ma perché non vieni con noi? Di uno come te ne abbiamo bisogno». Arrivarono subito al sodo: per mangiare non c’era problema e di lire in tasca ne avrebbe messe qualcuna in più rispetto a portar malta tutto il giorno. E in più gli aveva promesso una bicicletta nuova, ma nuova di zecca. Il gigante in bicicletta. L’impresario era sicuro che sarebbe stato un successo perché nessun altro circo ce l’avrebbe mai avuto un gigante in bicicletta. E se anche ne avessero trovato uno, non avrebbe certo fatto quelle cose lì.
Ottavio al Żigànt iniziò a viaggiare per la via Emilia con il circo, contento di poter stare tutto il giorno in bicicletta e aver due pasti belli abbondanti per riempirsi la pancia. Contento soprattutto che nessuno più ridesse di lui, che lo applaudissero soltanto. Mica come prima, quando da bordo pista era tutto un sogghignare di gente, tutto un ridere e un indicare lui e quell’altra, la donna, l’Alfonsina. Il gigante e la matta, due fenomeni da baraccone, i matti.
Gli spettatori non indicavano, anzi. Pagavano per vederlo e ai suoi numeri sulla bicicletta rispondevano con un “oooh”, con dei sospiri e degli applausi. Il gigante in bicicletta non era più un mostro, era un artista della bicicletta, delle acrobazie. E ne aveva aggiunte tante altre a quei quattro numeretti che faceva per tirare su due lire in più da portare a casa.
Ora stava in piedi ritto sulla sella, sul manubrio, aveva imparato a farlo anche con un piede sul cannone di una bicicletta e l’altro sul cannone di un’altra bicicletta. Sapeva girare su se stesso su una sola ruota mentre sbucciava una mela e se la mangiava. E altre decine e decine di numeri che finivano sempre con un “uau” dalle seggiole del pubblico. Ogni volta che ritornava in una città, un numero nuovo, perché, diceva l’impresario, gli spettatori hanno bisogno di novità.
E lui ne aveva uno che sarebbe stato il suo capolavoro. Uno scivolo per biciclette che si trasformava in una rampa. Un salto, e mentre era in volo far fare alla bicicletta un giro completo sopra la sua testa. Ne aveva parlato con il trapezista e il trapezista diceva che si poteva fare. E allora lui costruì lo scivolo e la rampa e iniziò a provarci. Ci mise poco a imparare, ancor meno a convincere l’impresario a farglielo fare nello spettacolo. Il giorno giusto fu una sera di fine aprile, a Firenze, davanti al pubblico che tra tutti era il più esigente.
Si lanciò giù dallo scivolo, si rannicchiò all’inizio della rampa per darsi lo slancio giusto, quello necessario. E in volo si sfilò la bici da sotto le gambe, la fece passare sopra la testa, dietro la schiena, lasciò il manubrio per poi riprenderlo una volta che la bici era ritornata tra le sue gambe. Atterrò sul materassone in lana. Fece l’inchino. Applausi stupiti. Tanti applausi. Un minuto almeno. Forse più. Un altro inchino. Buio.
Via dal proscenio, fuori dal tendone. Sentì il braccio riempirsi di formiche. Un bruciore in mezzo al petto, iniziò a vedere tutto fuori fuoco prima di precipitare in un buio che così buio mai l’aveva visto. Ottavio al Żigànt lo trovarono a terra qualche minuto dopo. Il suo cuore aveva smesso di battere poco dopo il suo capolavoro.
Ottavio Ricci è nato a Premilcuore nel gennaio del 1890. È morto a Firenze il 29 aprile o il 30 aprile del 1925 – i giornali dell’epoca non sono concordi – dopo aver concluso il suo spettacolo per il Circo Caroli.