Il 10 agosto 1969, nel momento esatto in cui si infilò la maglia iridata a Zolder, in Belgio, l’intera vita di Harm Ottenbros cadde letteralmente a pezzi.
Pensava di essere diventato, da quel ciclista da corse su strada di medio calibro qual era, uno dei più stimati corridori su due ruote al mondo. Quel che divenne davvero, invece, fu una delle “celebrità” più derise al mondo, e nel giro di pochi anni si ritrovò senza casa, desiderando di non avere mai intrapreso la carriera da ciclista.
I retroscena di questo racconto sono legati alle rivalità che oppongono da sempre due nazioni vicine, Olanda e Belgio. L’Olanda aveva soltanto un campione all’altezza di portarsi a casa il titolo Mondiale nel ’69, Jan Janssen, ma non poteva partecipare perché malato. Escluso lui, gli altri membri della squadra potevano al massimo aspirare a passare al leader una bottiglia d’acqua o dargli una spintarella se necessario, non certo a vincere. Nell’altro angolo del ring il Belgio poteva vantare un certo Eddy Merckx, che aveva vinto così tanti titoli quell’anno che gli altri ciclisti della squadra avevano decretato che non avrebbe potuto aggiungere un’altra vittoria alla lista dei suoi trionfi, e così corsero incredibilmente contro di lui. Da qui parte la storia che stiamo per raccontarvi.
Harm è un ragazzo di Alkmaar, una fiorente cittadina nell’Olanda del nord, nato il 27 giugno del 1943. Quando si presenta alla partenza del Campionato del Mondo del 1969 ha curriculum non certo tra i più entusiasmanti: una tappa al giro di Svizzera, un secondo posto al campionato nazionale e pochi altri piazzamenti. Insomma, l’olandese è più un gregario che un capitano, ma quel che sarà capace di realizzare a Zolder farà ancora più scalpore, perché nell’ordine d’arrivo finale non figurerà neppure un nome tra quelli che alla partenza venivano considerati favoriti.
CRONACA MONDIALE
Il 10 agosto 1969 si gareggia, dunque, sul circuito automobilistico di Zolder, proprio quello che nel 2002 avrebbe visto Mario Cipollini vincere a braccia alzate dopo una volata imperiosa. Il tracciato non presenta particolari difficoltà altimetriche e si presta pertanto a molteplici possibili tatticismi. Il Belgio, che oltre a Merckx e Van Looy schiera altri grossi calibri come Walter Godefroot, vincitore della Parigi-Roubaix, ed Eric Leman, gioca in casa ed è la squadra di riferimento. Pure l’Italia, però, ha una squadra importante, anche perché in quel ’69 la nazionale Azzurra difende il titolo di Adorni, e ha ovviamente in Vittorio l’uomo di punta. Il commissario tecnico Mario Ricci preferisce non convocare Felice Gimondi, vincitore del Giro, ritenendo il percorso troppo facile e non adatto alle caratteristiche del campione bergamasco.
Il DS italiano, decide di affiancare al campione del mondo in carica altri corridori piuttosto forti che all’occorrenza sanno anche vincere, quali Marino Basso, Franco Bitossi e Michele Dancelli, accompagnati a loro volta da gregari di lusso del calibro di Luciano Armani, Davide Boifava, Enrico Paolini, Vito Taccone e del campione olimpico Pierfranco Vianelli, nonché il velocissimo Dino Zandegù, che sono designati a fare il lavoro sporco e magari entrare nelle fughe da lontano. Corsa dunque all’attacco fin da subito per diversi comprimari, e il primo a partire è il campione di Francia Raymond Delisle, che passa all’ottavo giro in testa con un minuto e mezzo di vantaggio per poi venir ripreso dal gruppo. È la volta poi del tedesco Boelke a tentare la fuga da lontano, trovandosi a ruota il giovane belga Roger De Vlaeminck e gli olandesi Karstens e Ottenbros. Il gruppo rimane attardato di quasi 5 minuti con il solo Altig, a sua volta Campione del Mondo nel 1966, che tenta un improbabile riaggancio.
A metà gara la corsa vive il suo momento decisivo. Dancelli, si comporta da solito guastafeste qual è ma come sempre, tatticamente, un tantino ingenuo. Zandegù, Van Springel e un’altra manciata di corridori riacciuffano i fuggitivi con il gruppo ormai alle costole. Dancelli, con 100 chilometri ancora da percorrere, parte al contrattacco e al suo inseguimento si getta Roger De Vlaeminck, ma sarà il belga Julien Stevens a riprenderlo. La coppia di testa passa sul traguardo con un minuto di vantaggio quando mancano appena cinque giri al termine. Dal gruppo schizzano fuori Godefroot, Karstens, Mendes, Ottenbros e Wolfshohl, che di buon accordo riescono a portarsi sui battistrada in poco tempo.
Stevens, una volta raggiunto, riparte nuovamente in un’altra fuga, e l’unico a prendergli la ruota è lo stesso Ottenbros. I due fuggitivi pedalano forte e di comune accordo, allungando in poco tempo margine di vantaggio, anche perché alle loro spalle nessuno è più in grado di organizzare la rincorsa. Si entra così all’ultimo chilometro e a 300 metri dall’arrivo Stevens, il meno blasonato dello squadrone belga alla vigilia, prova lo scatto fulminante, nella speranza di sorprendere Ottenbros che, come lui, avrebbe discrete doti in caso di volata ristretta. Ma il belga, su cui erano riposte le speranze mondiali di una nazione intera, ha ormai speso troppo, e proprio sulla linea del traguardo Ottenbros lo brucia al fotofinish conquistando la maglia iridata. Dancelli, 2 minuti 18 secondi più tardi, anticipando il plotone va a prendersi la medaglia di bronzo, bissando il risultato dell’anno precedente quando era già salito sul gradino più basso del podio, battuto a Imola da Adorni e Van Springel.
E così, con Adorni e Merckx che rimangono imbottigliati in seno al gruppo, con Rick Van Looy che si era ritirato tra i fischi, Ottenbros vince quel Campionato del Mondo per una manciata di centimetri, ottenendo quello che atleti del calibro di Jacques Anquetil, Gino Bartali e Sean Kelly non ebbero mai.
AMARO DESTINO
Harm Hottenbros con quella vittoria non ottenne però il successo sperato. Il mondo del ciclismo gli si rivoltò letteralmente contro. Non importava che il suo trionfo fosse valido come quello di chiunque altro, che i grandi nomi erano troppo occupati dalle loro smanie di vendetta per pensare al traguardo. No, per l’ambiente del ciclismo, Ottenbros non meritava la maglia iridata e ben presto, dopo i colleghi professionisti, anche gli organizzatori e i fan cominciarono a ridere di lui. Ottenuto il titolo mondiale, che avrebbe dovuto fare la sua fortuna, Ottenbros non guadagnò un soldo più di prima. L’unico ciclista a congratularsi con lui fu Franco Bitossi ed egli fu così commosso da un simile gesto da regalargli una delle sue maglie iridate. Gli altri fecero gruppo contro di lui, opponendoglisi come già avevano fatto con Merckx e impedendogli di vincere anche solo una corsa su strada. Si presero gioco di lui per la sua difficoltà nelle corse sulle colline soprannominandolo, l’Aquila di Hogerheide, un’allusione ironica all’Aquila di Toledo, Federico Martin Bahamontes, grande scalatore spagnolo, e alla proverbiale piattezza dei Paesi Bassi, in cui Ottenbros viveva.
«Ero più famoso per il mio soprannome che per il titolo mondiale», era solito dire Ottenbros. Quel titolo non ebbe mai modo di difenderlo e quella maglia non riuscì nemmeno a portarla all’arrivo. Al Giro delle Fiandre fu costretto al ritiro in seguito di una frattura al polso. Che sfortuna povero ragazzo, proprio a inizio stagione. La sua squadra, la Willem II Gazzelle, gli chiuse la porta in faccia. Non lo voleva nessuno. Ottenbros fu costretto a ritirarsi, cadde in depressione e pensò anche al suicidio. Nel 1976 raggiunse con la sua bici il ponte Zeeland accompagnato dal giovane ciclista Gerrie Knetemann. Si fermò, sollevò la bicicletta e la scagliò oltre il parapetto giù nel fiume, guardandola scomparire disegnando cerchi concentrici nelle oscure profondità dell’acqua. Proseguì seduto sulla canna della bicicletta di Knetemann.
Le cose non fecero che peggiorare. Dopo la fine del suo matrimonio perse ogni contatto con i figli. Girò in macchina per tutta la Francia, cercando di ritrovare sé stesso, per poi trasferirsi in un edificio occupato a Sliedrecht, dove dormiva su un materasso buttato per terra. «In banca i soldi ce li avevo», affermò in un’intervista molti anni dopo, «ma non li ho mai toccati. Non volevo avere nulla a che fare con il ciclismo e quell’egoismo che aveva mandato in pezzi il mio matrimonio!».
Cominciò a dedicarsi alla scultura, ma la abbandonò proprio quando il suo talento cominciò a manifestarsi al mondo: non voleva correre il rischio di diventare nuovamente famoso. Gli ultimi anni della sua vita li ha vissuti in un complesso di case popolari a Dordrecht, nel sud-est dell’Olanda, dedicando il proprio tempo libero al recupero di bambini autistici. Aveva ripreso anche ad andare in bici con la squadra amatoriale di Alkmaar, e ogni tanto faceva qualche comparsata in giro con altri campioni del passato, come Jan Janssen, l’uomo la cui assenza dal Campionato Mondiale era stata la causa della sua rovina.
«Se dovessi ricominciare da capo la mia vita, penso proprio che salterei la parte del ciclismo», disse in un’intervista pochi giorni prima di morire nel sonno, appena prima del suo settantanovesimo compleanno. Era il 4 maggio del 2022.