Questa è una storia fatta di pietre, di uomini insensibili al freddo, alla fatica. Atleti duri, nervosi e mai domi che corrono impavidi all’ombra di migliaia di bandiere gialle con un leone nero al centro. Questa è la storia del Giro delle Fiandre.
Per conoscere quella che nell’immaginario di tutti è diventata un’autentica leggenda, bisogna salire lassù al Nord, in quel nord che tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera indossa il vestito della festa, bello svolazzante e rumoroso, un tessuto fatto di sassi, di polvere e il più delle volte ricamato dal fango, un impasto di terra e carbone che ti entra dentro per sempre. Non esistono le mezze misure alla Ronde van Vlaanderen (nome fiammingo della gara): chi non la odierà… l’amerà per sempre.
La trama di questa storia è diversa ogni volta, il palcoscenico invece è sempre lo stesso. Anche i pericoli sono sempre gli stessi. Nomi duri come quelle pietre, cattivi come gli orchi delle fiabe germaniche: Oude Kwaremont, Kortekeer, Koppenberg, Paterberg. Sono muri infidi di pietre incastonate in quelle maledette salite di terra argillosa. Pietre tutte diverse, non ce n’è una uguale all’altra, che sembrano messe lì per esaltare o condannare chi tenta di domarle. E chi vince sarà sempre inevitabilmente un campione.
Sono in tanti a considerare il Giro delle Fiandre l’università del ciclismo. Un uomo che entra in quest’avventura deve saper volare su quel maledetto porfido, sia in salita che in discesa, quando le mani fanno male per davvero e la catena va ovunque, cade e se va bene torna a posto in un attimo. Le vibrazioni del soprasella sono devastanti, e la bicicletta sembra imbizzarrirsi a più non posso. Nei tratti d’asfalto, poi, sarà il vento a fare il resto, per decidere chi vive e chi sopravvive. Raffiche continue fanno sbandare e il freddo si fa sentire, avere un compagno a fianco fa sempre la differenza. La Ronde è battaglia vera.
LE ORIGINI
Carolus Ludovicius Steyaert era il quinto di 15 figli in una famiglia povera di Wijnendale, vicino a Torhout. A 14 anni lasciò la scuola e si mise a lavorare come garzone di panetteria, e fu lì che sviluppò la passione per la bicicletta. Cominciò a correre a livello agonistico, vincendo un paio di gran premi di paese ma non fece strada come corridore. Decise quindi di scrivere e diventare promotore del ciclismo nella regione fiamminga. Si spostò da Torhout, come inviato per il locale De Torhoutenaer, ad Anversa, per l’Onze Kampioenen, e a Izegem, dove scrisse per lo Sportvriend e dove iniziò a firmarsi con lo pseudonimo col quale è più conosciuto, Karel Van Wijnendaele.
La vittoria di Odile Defraye, primo grande campione Fiammingo, al Tour de France del 1912, convinse il direttore di una società belga di macchine stampatrici, August De Maeght, a fondare una rivista sportiva settimanale, lo Sportwereld, e a reclutare Van Wijnendaele come giornalista. Era il 1913 quando si decise di organizzare una corsa attorno alla città di Gand per promuovere l’immagine del giornale. La concomitanza con la Milano-Sanremo, però, negava la partecipazione dei grandi nomi del ciclismo mondiale. Il 25 maggio 1913 il belga Paul Deman uscì di casa, si fece 50 chilometri in bicicletta e si presentò alla partenza di questa nuova corsa. Gli atleti erano in trentasette, e lui fu il primo a tagliare il traguardo battendo in volata altri quattro corridori, tutti belgi. Deman, che all’epoca aveva 24 anni e difendeva i colori della squadra Automoto, si mise in tasca i 1500 franchi del montepremi dopo 12 ore, 3 minuti e 10 secondi in bicicletta. Il pavé sotto le ruote, i muri da scalare. Si poté permettere di tornare a casa in treno.
L’anno dopo vincerà la Bordeaux-Parigi, per diventare poi un militare con incarichi segreti durante la Prima Guerra Mondiale. Fungerà da collegamento tra l’esercito anglo-francese accampato in Olanda e i resistenti agli occupanti tedeschi del Belgio, nascondendo i messaggi nel telaio della bicicletta. Come negli Anni ’40 avrebbe fatto Bartali con i falsi documenti per far fuggire gli ebrei toscani. Arrestato dai tedeschi nel 1918, scampò l’esecuzione perché la guerra finì in tempo con la sconfitta dei suoi carcerieri. Tornò a correre e a vincere: la Roubaix nel 1920 e la Parigi-Tour nel 1923. Morì a 72 anni nel 1961.
La seconda edizione della Ronde vide ai nastri di partenza 47 partecipanti e a vincere fu Marcel Buysse, in quel di Evergem. Per Van Wijnendaele furono comunque due edizioni deludenti in quanto, oltre alla concomitanza con la Milano-Sanremo, ai corridori più forti veniva proibita la partecipazione alla corsa dato che c’era troppo rischio di rottura della bicicletta e le aziende che fornivano loro il mezzo non potevano coprirne finanziariamente le riparazioni o la nuova costruzione. Buysse, tuttavia, prese il via e vinse l’edizione 1914 sebbene la sua squadra, l’Alcyon, non voleva partecipasse, diventando così subito un simbolo di nazionalismo fiammingo, in quanto già vincitore di tappe al Giro d’Italia e Tour de France. Purtroppo le Fiandre divennero campo di battaglia della Prima Guerra Mondiale e dal 1915 al 1918 non si corse.
IL PRIMO DOPOGUERRA
Finita la Grande Guerra, si torna a correre la Ronde. In quelle strade disastrate a vincere fu il belga di Lichtervelde, Henri Van Lerberghe, tutti lo chiamavano Ritte e tutti pensavano che fosse un pazzo, poiché si presentò a piedi alla partenza fumando una sigaretta, senza nemmeno la bicicletta. Ne recuperò una a due ore dalla partenza, prestatagli dal cognato di un altro corridore, e un benefattore gli diede addirittura i 10 centesimi per l’iscrizione.
E pensare che durante il primo Giro delle Fiandre del 1913, Ritte provò l’assolo a trecento chilometri dal traguardo (su 324): finì quattordicesimo. L’anno successivo a 240: finì secondo. Lui, che era solito dire alla partenza delle corse «oggi vi uccido tutti!», in quell’occasione aggiunse «vi vedrò arrivare uno per uno». Sino ad allora Ritte per tutti era conosciuto come “lo stupido pazzo”, e tutti ridevano di lui, ma da quel giorno in poi diventò “Il cavaliere della morte di Lichtervelde”. Partì dietro a tutti quel 23 marzo del 1919. E dietro a tutti pedalò a lungo. Si fermò a mangiare nell’osteria di un commilitone. Quando rientrò sui primi, di chilometri al traguardo ne mancavano 140 e rubò addirittura il rifornimento al vincitore di 5 anni prima, Marcel Buysse, dicendo al suo aiutante che il campione del 1914 si era ritirato (cosa non vera).
Venti chilometri dopo, su di un leggero pendio in pavé, scattò e tutti pensarono: «Ecco il solito povero pazzo». Ritte macinò chilometri come un treno. E quando un treno lo trovò davvero, vagoni su vagoni fermi a bloccar la strada ai corridori, si mise la bici in spalla, salì a bordo e discese dall’altro lato della strada. Ritte pedalava evitando le buche tra le macerie delle case bombardate. Quando giunse a Gand quasi non si accorse di essere in una città. Proseguì dritto. Fu un commissario della giuria ad accorgersi che aveva sbagliato strada e a rincorrerlo per un chilometro prima di ricondurlo verso il velodromo. E quando vi entrò, una folla chiassosa iniziò ad applaudirlo e un tifoso con un megafono a urlare: «È arrivato il primo corridore! È arrivato il primo corridore!”.
Superato il traguardo sorrise e chiese una birra. Disse: «Ora me ne bevo una ogni cinque minuti». Se ne scolò tre litri prima che arrivasse il secondo corridore, nella fattispecie Léon Buysse. Ritte lo salutò e beffardo gli offrì il boccale dicendo: «V’avevo detto che oggi vi ammazzavo tutti». Ritte ubriaco salì sul palco e dopo un’ulteriore birra disse: «Potete andare tutti a casa perché il secondo è a mezza giornata da qui!». Léon Buysse, fratello del più celebre Marcel, giunse a un quarto d’ora, una mezza giornata davvero in termini ciclistici, tanto che resta il più grande divario nella leggendaria storia della Ronde van Vlaanderen.
Intanto anno dopo anno il Fiandre diventava sempre più famoso e conteso. Nell’edizione del 1920 fu la volta di Jules Van Hevel, poi di Rene Vermandel e Leon De Vos, per poi cedere il titolo nel 1923 per la prima volta a uno straniero. Fu infatti lo svizzero Heiri Suter a far suo il Giro delle Fiandre firmando, oltre che la prima vittoria straniera, la prima doppietta Fiandre-Roubaix della storia. La vittoria di Suter fu comunque una mosca bianca, perché nei successivi 24 anni la vittoria andò ininterrottamente ai belgi, da Gérard Debaets – che la vinse due volte – passando per Achiel Buysse, che s’impose in ben tre edizioni (1940, 1941, 1943), fino ad arrivare al signor Alberic Schotte, uno “sbarbato di primo pelo”, come riportano le cronache dell’epoca. Schotte esordì al Fiandre nel 1940 e rimarrà il corridore più giovane a entrare tra i primi tre nella storia della corsa. Divenne pure il più vecchio a concludere una Ronde. Ne corse venti, l’ultima nel 1959. Nessuno è mai riuscito a eguagliarlo in presenze, nessuno neppure per ardore e tenacia. Schotte era stato battezzato Alberic, ma per tutti era “Brik”, il soprannome che suonava come un’onomatopea. «Era uomo di modi frettolosi e acuti, non arrogante o supponente, ma piuttosto sbrigativo. Stava poco in gruppo» – raccontò il patron del Tour, Goddet – «Appena poteva tentava l’accelerazione per restare solo, come è solo l’uomo chino sulla terra che fa crescere il frutto di questa».
Sprigionava una potenza incredibile, aveva spunto veloce e resistenza fuori dal normale, «Una locomotiva su due ruote, che si fiondava a velocità folle contro qualsiasi traguardo», scrisse l’ex patron del Tour de France. Potenza senza grazia, senza la bellezza dei grandi corridori, uno stile «rozzo e dozzinale, ma tremendamente efficace». Conquistò due Campionati del Mondo, oltre a una cinquantina di corse. La Ronde la conquistò nel 1942, due anni dopo quel podio insperato. Si impose «con una luce lunga sessanta chilometri e un boato lungo cinquecento metri. Uno sprint di una potenza sorprendente che ha annichilito qualsiasi tentativo di resistenza. Lascia tutti a oltre cinque secondi», scrisse Glett Loppe sul Soir. Stesso finale sei anni dopo: Schotte prova a far saltare la corsa nei tratti in pavé, si difende in salita come può, è una furia in discesa, disintegra tutti allo sprint. È il suo secondo Fiandre, quello del 1948.
Brik andò avanti sino al Fiandre del 1959: aveva quarant’anni, ancor oggi il più anziano atleta ad aver partecipato alla corsa. L’anno precedente era arrivato sesto. In quel 1959 era ancora con il gruppo buono, con Van Looy, Schoubben e De Cabooter, quando giù dal Kloosterstraat forò e a causa della rottura di alcuni raggi cadde al di fuori della carreggiata, su un masso, fratturandosi la spalla. Su quelle pietre si chiuse la carriera di Alberic “Brik” Schotte, l’unico ad aver corso una ventina delle Ronde disputate. «Il Fiandre mi ha dato tanto. Due vittorie, molti podi, tante soddisfazioni. Io gli ho dato una spalla e un dente. E anche un mignolo».
IL LEONE DELLE FIANDRE
Venne poi il 1949, e per l’Italia fu un vero trionfo. A imporsi fu un toscano elegante e forte, Fiorenzo Magni di Vaiano, che l’anno precedente fu costretto al ritiro a causa di una ruota spezzata, ma in quel 10 aprile si presentò a Gand con tanti panini e tante borracce infilate nella maglia. A metà gara l’italiano era già in fuga, stavolta però con ruote e tubolari più robusti: una scelta tecnica perfetta per poter uscire indenni dalle insidie del pavé. Il compagno di fuga è il francese Louis Caput che però non collabora, finché ai 5 km dal traguardo vengono riassorbiti dai contrattaccanti. Magni non si perde d’animo e con un agile 47×15 riesce a vincere la volata davanti a Valère Ollivier e all’onnipresente Brik Schotte. Nel 1950 gli organizzatori decisero di apportare alcune modifiche significative al percorso, una su tutte l’inserimento del muro di Grammont, che in Belgio chiamano “Muur-Kapelmuur” o più semplicemente “Muur”: il muro della cappella. Il Kapelmuur è una salita di pietre lunga un chilometro con tratti al 20%, a una cinquantina di chilometri dal traguardo. 7000 i franchi di premio per chi fosse transitato per primo in cima alla chiesetta di Nostra Signora del Monte Vecchio (Onze-Lieve-Vrouw-van-Oudebergkapel in fiammingo). Faceva un gran freddo quel giorno.
Fiorenzo Magni vinse per la seconda volta consecutiva e oltre ai premi ufficiali – compresi i 7000 franchi – ricevette prosciutti, scarpe, tappeti, persino una canna da pesca: erano tutti regali che gli fecero i connazionali per ringraziarlo delle emozioni che aveva regalato a loro. Del resto l’epopea di Magni nacque in concomitanza con un periodo particolare della storia, quando al Belgio mancava la manovalanza e all’Italia mancava il carbone… Di italiani, quel giorno all’arrivo di Wetteren, ce n’erano tanti, tutti uomini arrivati a faticare e rischiare la loro vita in cambio di quel maledetto carbone concordato tra governanti.
Fiorenzo Magni si aggiudicò anche l’edizione del 1951, in un giorno infernale, quando oltre alla pioggia cominciò pure a nevicare, e una fitta nebbia ad aggravare la situazione degli ultimi venti chilometri, ma il toscano si liberò ugualmente di tutti a 70 chilometri dall’arrivo e giunse solitario al traguardo con 5′ 38” di distacco dal francese Gauthier. Fiorenzo Magni rimarrà nella storia per essere a oggi l’unico a vincere tre edizioni del Fiandre di fila. I belgi lo ammiravano e lo avevano soprannominano “Le Locomotief”. Mario Fossati lo chiamava “Lupo Bianco”, ma il soprannome che lo accompagnerà per tutta la vita sarà “Il Leone delle Fiandre”. «È stato un giornalista italiano a definirmi Leone delle Fiandre, se lo hanno detto vuol dire che me lo sono meritato», disse Magni. Intanto il Giro delle Fiandre era diventato un fenomeno incredibile. Gli organizzatori già da qualche anno erano stati costretti a firmare una collaborazione con la gendarmeria belga per contenere i tifosi che si assembravano lungo i terribili muri, quasi sempre straripanti di entusiasmo e di birra. Del resto i corridori della Ronde, erano diventati quasi delle divinità e forse sono rimasti tali fino ai giorni nostri.
VITA DA FLANDRIEN
Un Flandrien è una definizione precisa. «È un ciclista che fa una gara difficile optando costantemente per l’attacco e continuando a pedalare fino a quando non raggiunge il traguardo stanco morto», questo è quel che diceva Karel van Wijnendaele, il suo inventore. Non serve essere nati nelle Fiandre per essere un Flandrien. È un titolo, una medaglia, un attributo dell’essere: serve essere figlio delle pietre, sentirle, accarezzarle e prenderle a schiaffi allo stesso tempo. La giusta mescolanza d’amore e cattiveria.
Lucien Buysse, pensando che fosse cosa nota e palese, lo dichiarò tranquillamente all’Het Nieuwsblad nel 1955: «Se morisse il re il giorno della Ronde non se ne accorgerebbe nessuno nelle Fiandre». E questo perché, continuò il vincitore del Tour de France del 1926, «Il re, la monarchia, il governo e tutto il resto valgono molto meno di un Giro delle Fiandre. Se chiedete a un fiammingo quando si festeggia la festa nazionale magari non lo sa, ma sicuramente sa quando si corre la Ronde». Finì che Buysse rischiò di finire in un’aula di tribunale con l’accusa di vilipendio. Finì che l’Het Nieuwsblad rischiò la stessa fine e dovette pubblicare un editoriale per dissociarsi da quelle affermazioni. Finì soprattutto che nessuno si ricorda di tutto questo, ma tutti sono ancora d’accordo nel dire che se morisse il re il giorno della Ronde non se ne accorgerebbe nessuno nelle Fiandre. Tutto questo perché lassù al Nord la Ronde è ancora l’istituzione più importante e quando si corre è il giorno della vera festa nazionale.
La Ronde è sempre stata una classica molto ambita dai grandi campioni e nel suo albo d’oro spiccano nomi del calibro di Louison Bobet, Rik Van Looy, Tom Simpson e poi ancora il cannibale Eddy Merckx, che ne era profondamente innamorato, riuscendo però a imporsi in due sole edizioni a sei anni di distanza l’una dall’altra (1969 e 1976). Adrie Van Der Poel s’impose nel 1986 e suo figlio Mathieu, invece, la vinse nel 2022. Fabian Cancellara rimane l’ultimo plurivincitore con 3 edizioni assieme a Johan Museeuw e Tom Boonen, oltre ai già citati Fiorenzo Magni, Eric Leman e Achiel Buysse. Gli Italiani la vinsero undici volte, da Fiorenzo Magni a Dino Zandegù, poi in epoca moderna toccò a Moreno Argentin, Gianni Bugno, Michele Bartoli e poi ancora Gianluca Bortolami, Andrea Tafi fino ad Alessandro Ballan e quella bellissima fuga del 2019 che porta la firma di Alberto Bettiol.
L’edizione più lunga del Giro delle Fiandre fu proprio la prima, quella del 1913, e il vincitore Paul Deman percorse quei 324 chilometri, impiegando 12 ore 03′ 10”. Il più giovane a vincere la Ronde fu Rik Van Steenbergen, a 19 anni nel 1944. Invece il primato del più maturo va ad Andrei Tchmil. È giusto sottolineare che il Giro delle Fiandre si fermò solo durante la Grande Guerra per tre anni, e poi una lunga striscia fino a oggi. Lo si corse anche durante il secondo conflitto mondiale e il Covid, e quella di quest’anno sarà la centosettesima edizione. Insomma, per raccontare completamente la storia, gli aneddoti e tutte le meraviglie della Ronde non basterebbero due volumi enciclopedici. Allora senza togliere nulla alle altre, proviamo a ripercorrere due edizioni che sono rimaste nei cuori di molti tifosi del grande ciclismo.
LA STOCCATA DEI MINATORI
Primo aprile 1967, ore 20. Tutta la squadra della Salvarani si trova a Gand in Belgio, precisamente nelle Fiandre Orientali. È ora di cena e di fronte l’uno all’altro ci sono Dino Zandegù e Felice Gimondi. Quella sera il guascone padovano non sprizzava la sua proverbiale allegria, anzi per la verità i suoi compagni erano un po’ preoccupati per il fatto che non fosse ancora arrivato nessun pesce d’aprile. Zandegù era famoso per i suoi scherzi, come quella volta che nascose la campanella dell’ultimo giro in una sei giorni, o per le volte che si attaccava ai vari sellini facendo pedalare l’ignaro avversario in corsa e così via. Quella sera non era il solito Dino che tutti conoscevano.
Lui veniva da Rubano, un paesino vicino a Padova, una terra di emigranti. Quella sera quando il suo capitano gli chiese il motivo di tanta serietà lui cominciò a raccontare dei suoi compaesani che avevano dovuto emigrare proprio lì, in Belgio, per lavorare nelle profondità delle miniere. Le famiglie a casa e quindici ore al giorno sottoterra per uscire solo a sera inoltrata, con la pelle nera come il carbone che avevano estratto per tutto il giorno. Gente che entrava nella miniera di notte e ne usciva quando era già di nuovo notte. Gimondi vide negli occhi del ragazzo una profonda emozione e forse un qualcosa che andava al di là del semplice rispetto in quanto tale, perché lo sentiva molto, molto vicino ai suoi compaesani. Una sorte di sofferenza empatica.
Il giorno dopo la corsa partiva proprio da Gand e forse la tattica dell’indomani nacque proprio dalle chiacchiere della cena tra i due ciclisti. Merckx era nettamente il favorito: aveva vinto da poco la Milano-Sanremo e tre giorni prima aveva dominato la Gand Wevelgem. Anche Gimondi era in forma ma Eddy era superiore e poi i racconti della sera prima lo avevano stranamente inquietato. Alla partenza il cielo era grigio e lungo il percorso la pioggia si alternava a nevischio, il tutto condito da un vento insidiosissimo che obbligava i corridori a frequenti cambiamenti di ritmo. Dopo dieci chilometri vanno in fuga in sette corridori, tra i quali il belga Noel Forè, che aveva vinto il Fiandre l’anno prima. Poi l’inglese Hoban, George Delvel e altri quattro. Questi raggiungono un vantaggio massimo di sei minuti quando, dopo 216 chilometri, nei pressi di Mont de Faucons, vengono ripresi dal gruppo e Gimondi allunga. Dopo poco Zandegù lo rincorre e si porta dietro un drappello di uomini, tra i quali Merckx. Una volta raggiunto il capitano, Dino scatta e Gimondi resta alle sue spalle a far da freno al fiammingo e agli altri, mentre il solo Forè rimane alla ruota di Zandegù. Al traguardo di Merelbeke vincerà l’italiano sullo stoico ma esausto Forè, reduce da ben 245 chilometri di fuga.
Al momento della premiazione sotto al palco c’erano centinaia di minatori italiani che esultavano per colui che aveva domato i leoni fiamminghi nella loro gabbia. Dino Zandegù non stava nella pelle, Gimondi piangeva per lui e per tutti quei minatori che in quel momento si sentivano italiani più che mai. Sentivano che l’orgoglio di patria era un qualcosa di vivo, una vittoria che profumava di riscatto: quel trionfo era anche di tutti loro. Quando lo speaker della corsa andò per l’intervista, Zandegù decise di dedicare ai minatori la canzone che più rappresentava la loro terra, “O sole mio”, e mentre cantava guardava loro che cantavano insieme a lui e vedeva quelle facce di fatica che in quel momento si sentivano un po’ a casa, e si commosse proprio al momento dell’acuto. Proprio nel momento in cui avrebbe dovuto intonare “Sta in frooont’atteee” la voce gli si spezzò nella gola. «Nessun tenore di quotazione mondiale ce l’avrebbe fatta», spiegò, e guardando in faccia il suo capitano Gimondi lo ringraziò per aver diretto l’orchestra sia in corsa sia nella canzone con steccata finale.
L’EPICO 1977
Quella del 1977 è stata una delle corse più polemiche nella storia del ciclismo moderno. La vincerà De Vlaeminck, trionfando in casa in una gara per lui stregata e che per il belga aveva un valore immenso, anche più del campionato del mondo. Domenica 3 aprile, a St Niklass 167 partenti e nuvole basse. Arriveranno solo in 26 a Meerbeke. Il gruppo unito fino ai primi muri, quando Merckx dà fuoco alla miccia. Le polveri però per Eddy sono un po’ bagnate, visto che è affetto da mononucleosi (lo scoprirà pochi giorni dopo). Anche se non sta molto bene, decide di andare comunque in fuga. Del resto lui non riesce ad arrendersi all’evidenza dei fatti: ha paura che la stagione gli sfugga di mano e ha ragione, poiché quella sarà la sua ultima annata da professionista, la più scarna di successi.
Roger De Vlaeminck e Freddy Maertens vanno a riprendere Eddy Merckx sul Koppenberg e poi lo mollano per strada, lasciandolo quasi in surplace. Sul Koppenberg, inserito appena l’anno precedente, i due fuoriclasse fanno impazzire la marea umana trattenuta a stento dalla polizia. Poco dopo Maertens, a seguito di una foratura, invece di aspettare l’ammiraglia della Flandria si fa passare la bici da un tifoso – o almeno così dice lui – ma si vocifera fosse stato invece suo fratello, e la bici fosse ultraleggera con rapporti agilissimi… Eh no! Il regolamento parla chiaro: squalifica immediata in caso di vittoria.
Il direttore di gara, Jos Fabri, si avvicina a Maertens per comunicargli che il cambio bici non è ammesso dal regolamento prima del Koppennberg, per evitare “imbottigliamenti” nel caso lo avessero fatto in molti, così lo squalifica. Peccato che il direttore sportivo di Maertens alla Flandria-Velda, l’istrionico Guillaume “Lomme” Driessens, non avesse partecipato alla riunione pre-gara dei DS, dove la norma era stata illustrata! Maertens comunque è deciso a continuare per poi appellare la squalifica, anche perché Driessens gli grida: «Va’ avanti, tira dritto. Siamo in diretta TV, ed è buona pubblicità per noi, vedrai che tutto si aggiusta!».
Fabri insiste, urlando, che spreca il suo tempo e le sue energie. A quel punto Driessens ha un’idea delle sue: dice a Maertens di continuare e poi si avvicina a De Vlaeminck per offrirgli la scia di Maertens in cambio di 300.000 franchi belgi. De Vlaeminck, che oltretutto era stanchissimo, accetta e si mette a ruota di Maertens per i restanti 80 km senza tirare un metro. Sul rettilineo finale “il Gitano di Eeklo” (il soprannome di De Vlaeminck) sorpassa Maertens, che allo sprint normalmente era molto più veloce di lui, e vince. Sul podio De Vlaeminck, che solo l’anno prima aveva bollato il vincitore Planckaert di essere un “ciucciaruote” per non aver collaborato nel finale, viene fischiato e fatto oggetto di “buuu” da parte del pubblico. Maertens fa appello, ma viene squalificato pur senza essere privato del secondo posto, per via “della dimostrazione di umanità per i suoi sforzi”. Scelta molto discutibile e fuori dagli schemi, ma fu così che andò. La squalifica arriva comunque pochi giorni dopo, per quel cambio bici. La federazione belga sentenziò: “strategia premeditata”.
Ma non è tutto. A fine mese scoppia lo scandalo dello Stymul, il prodotto proibito che quasi tutti prendono. Un biochimico di Gand, il professor Michel Debackere, ha messo a punto un metodo efficace per scoprire i furbi. Maertens è tra i colpiti e viene tolto dall’ordine d’arrivo (squalifica doppia), così come Plankaert terzo arrivato. Il successo di De Vlaeminck acquista a questo punto maggior credito. Tra gli altri “beccati” Merckx, Pollentier, Sibylle, Kuiper e Van Katwijk. E gli italiani? In due soli finiscono la gara, Moser e Alfio Vandi. Francesco è sesto al termine di una giornata certo non brillante, costretto a inseguire per tutto il giorno l’incontenibile coppia al comando. Pur arrivando due volte secondo, 1976 e 1980, lo Sceriffo il Fiandre non lo vincerà mai.
UNA STORIA DI PIETRA
Il Giro delle Fiandre non è mai stata una corsa come le altre. In molti la considerano l’Università del Ciclismo, l’evento dell’anno. Il vento, le pietre, i muri, la fatica, il tifo scatenato di migliaia di tifosi accalcati lungo il percorso sono le peculiarità di questa corsa tanto mistica quanto spaventosa. Per vincerla ci vogliono cattiveria, intelligenza e fortuna, e chi la vince finisce nella lista dei santi o nel girone dei maledetti. Quella del 2023 vinta in maniera straripante da Pogačar è stata l’edizione numero 107 di una classica con il pelo sullo stomaco, un evento che ebbe uno stop di quattro anni dal 1915 al 1918, il Belgio in questi anni subì l’invasione tedesca e numerosi scenari di battaglia. Si riprese nel 1919 e poi via dritti fino ai giorni nostri, nemmeno la Seconda Guerra Mondiale riuscì a fermarla.
Le città di partenza e arrivo sono cambiate nel corso degli anni: Gand, Sint Niklaas, Bruges e nell’ultimo anno Anversa per il chilometro zero, mentre sempre Gand, Wetteren, Meerbeke, Ninove e Oudenaarde per il traguardo finale. Il percorso del Giro delle Fiandre è cambiato molte volte nel corso degli anni. Fino agli Anni ’50 c’era spazio solo per il Kluisberg, il Kwaremont, il Kruisberg e l’Edelare, ma sempre più spesso l’organizzazione proponeva nuove strade con pavé. Nel 1950, come detto, venne affrontato per la prima volta il Kapelmuur. Nel 1974 la gara arrivò all’Oude Kwaremont, mentre il temuto Koppenberg per la prima volta è stato affrontato nel 1976. Sta di fatto che in Belgio la Ronde è la vera festa nazionale e per i fiamminghi quella vittoria è davvero più importante del campionato del mondo, perché sono convinti che il vero mondiale si corra quel giorno. Insomma: «Se morisse il re il giorno della Ronde, non se ne accorgerebbe nessuno nelle Fiandre». Lucien Buysse aveva ragione.
A cura di: Alessio Stefano Berti Foto: archivio fotografico Carlo Delfino