Franco Bitossi ha da poco compiuto 80 anni, il primo settembre. Il terzo corridore più vittorioso tra gli italiani con 171 vittorie (dopo Moser e Saronni), vive a Empoli, poco dopo le colline che circondano Firenze.
La sua è una storia molto toscana, legata a luoghi e borghi dell’entroterra, lungo il corso dell’Arno. Originario di Camaioni, località lungo la strada che porta a Montelupo fiorentino, famoso per la lavorazione delle terre cotte. La famiglia lavorava nella fabbrica locale, che recuperava l’argilla dall’Arno dopo le piene. Bitossi comincia a pedalare per stare insieme ai coetanei, senza avere l’idea da subito di diventare un corridore di professione. Le prime biciclette le alterna con altri ragazzi tramite il meccanico di San Miniatello, che a seconda delle età dei giovani faceva girare le taglie. Erano biciclette di seconda mano, ma sempre con le misure giuste.
La passione per la bicicletta come viene fuori?
Nasce per prima cosa per il ciclismo, che allora era più sentito del calcio, anche tra i giovani. Il babbo era per Bartali, altri erano per Coppi e questa rivalità era molto sentita. Mi sono appassionato presto al ciclismo. Ho imparato ad andare in bicicletta da bambino. Poi crescendo con le biciclette che si trovava. Una volta, con una bicicletta da uomo che era troppo alta per me, ho pedalato sotto il tubo orizzontale. Poi il babbo mi ha comprato una bicicletta da corsa, con cambio Campagnolo ‘tradizionale’. Con quella ho cominciato a fare i miei giri fuori da Camaioni e ad andare a lavorare.
Come tanti di quell’epoca. Ha cominciato molto presto?
Si, tra i 10-11 anni, trasportando l’argilla per fare le terre cotte. A 11-12 anni avevo imparato a fare i mattoni, qualche vasetto. Andavamo a riprendere l’argilla dopo le piene dell’Arno. A 14 anni sono andato a lavorare in fabbrica. Mi muovevo in bicicletta e in quel tempo nascevano anche le prime sfide con altri ragazzi, dove ero sempre tra i migliori. Andavamo con il babbo a vedere le corse che si disputavano nei dintorni finché decisi, con il benestare della famiglia, di cominciare a correre.
Non avevo ancora metodo di allenamento, andavo molto da solo. Mi ricordo che in una corsa in cui si faceva la salita di San Baronto da Lamporecchio mi ero infilato nel gruppo dei primi corridori e riuscivo facilmente a tenere le ruote.
Inizia con la società ciclistica locale del Porto di Mezzo.
Sì, nel 1957. Quell’anno ho disputato 4 corse tra agosto e settembre: la prima sono arrivato ottavo, la seconda sesto, la terza secondo. Nella quarta caddi e mi portarono all’ospedale per sospetto trauma cranico. Allo stesso tempo continuavo a lavorare. Con l’aiuto del babbo e con i soldi che mettevo da parte facendo gli straordinari decidemmo di comprare una bicicletta un po’ più moderna, più performante.
Nell’inverno del 1958 feci la preparazione e alla quinta/sesta corsa a cui ho partecipato, era il 13 aprile 1958, arrivò la prima vittoria. Ero caduto la domenica prima scendendo dalla Palazzina, la strada per Mosciano. Mi portarono all’ospedale, dove mi incerottarono tutto. Non potevo andare a lavorare ma ho avuto il tempo di allenarmi. Dopo quella prima vittoria ho continuato a vincere e a dicembre scelsi di dedicarmi completamente al ciclismo.
Fin dagli inizi, entrò in contatto con Alfredo Martini.
Ho conosciuto Alfredo quando ero ancora dilettante nel 1961. Stavo per passare alla società del Porta Romana. I dirigenti chiesero a Martini, che allora aveva già finito la carriera (1957) e si occupava del negozio di abbigliamento di consigliarmi. Mi fermavo spesso da lui quando avevo qualche problema o non mi sentivo bene. Ho trovato in Martini un ottimo aiuto, è stato anche mio direttore sportivo alla Sammontana (1973).
Diceva: «L’allenamento è un accumulo di energie, non un dispendio. Quando hai fatto l’allenamento buono te ne rendi conto da questo: devi arrivare a fare l’ultima salita stanco, ma con la gamba ancora buona. In modo che quando torni in pianura la gamba deve ‘andare via’. Devi pedalare facile senza far fatica. Allora l’allenamento è buono. Se torni a casa e ti fanno male le gambe hai sbagliato a fare l’allenamento».
Tra i dilettanti, tra il 1959 e il 1961, ottiene 4 vittorie il primo anno, 4 vittorie il secondo e ben 13 vittorie e 12 secondi nella terza stagione. Tutte vittorie in linea, non in corse a tappe. E qui comincia a dare qualche segnale anche il cuore.
Avevo già accusato qualche disturbo nel ‘58, da allievo. Da lì è venuto il dubbio di non poter fare il corridore professionista. Mi tormentavo. Da dilettante non mi fermavo, rallentavo solo l’andatura e poi ripartivo. Il fatto di aver vinto mi dava la possibilità di passare professionista e allora mi sono detto: «perché non provare?».
In famiglia come era vissuto questo problema al cuore?
Sapevano che c’era ma non era così accentuato come sarebbe stato col passaggio tra i professionisti. Da dilettante avevo vinto molto e fatto vincere anche i compagni ma facevo una vita regolare: mangiavo e dormivo a casa, poi ci si spostava verso la corsa. Il mio ritmo biologico era perfetto: mi alzavo alle 6 di mattina, andavo a letto alle 20.30 la sera e mi addormentavo alle 21 e così via giorno dopo giorno. Correvo tranquillo, non facevo fatica e vincevo. Il cuore non mi dava tanto fastidio. Col passaggio tra i professionisti quel ritmo venne scombussolato. Già alla gara del debutto, il Giro dell’Emilia (ottobre 1961), mi prese un paio di volte l’attacco di tachicardia. In quell’occasione c’era con me il mio compagno Chiarini, con cui avevamo fatto i dilettanti insieme, che mi spinse per un po’ finché il cuore non riprese a battere con ritmo più regolare.
Questi spostamenti, questo cambio del modo di vivere e di prepararmi, mi hanno danneggiato. Non ero più in quella ‘bolla’ di tranquillità. Quando venivo a casa invece era tutta un’altra cosa, avevo la possibilità di allenarmi il giorno prima e potevo riprendere il mio ritmo preferito.
Passa nell’ottobre del 1961 nella Philco, diretta da Fiorenzo Magni, con cui correrà anche nel 1962. Che rapporto c’era con Magni? Era un ‘sergente di ferro’?
Si, dai corridori pretendeva. Non veniva sempre alle gare, c’erano anche altri due direttori sportivi, ma quando veniva decideva la tattica. Dava le disposizioni per i gregari in modo che lavorassero durante la corsa, con la raccomandazione che: «Se ti vedo all’arrivo vuol dire che non hai lavorato».
Più che timore, incuteva rispetto. Ero un ragazzino giovane, appena passato, non potevo pretendere nulla. Il primo anno poi sono andato male: mi prendeva un attacco, io insistevo, ma piano piano mi staccavo e poi mi ritiravo.
La Philco al termine del 1962 decide di chiudere la squadra. Come si risolse la cosa?
Ci diedero l’80% dell’ingaggio. Così quando nel 1963 Gastone Nencini allestì una nuova squadra, la Spingoil – Fuschs, mi presero insieme a Chiarini. Quel 1963 fu un anno decisivo perché fino ad allora non avevo fatto corse a tappe, invece adesso c’era da correre il Giro d’Italia. Eravamo in 11 per 10 posti. Moretti, che era il manager, ci aveva convocato la settimana prima della partenza del Giro ad Albano laziale, per fare la selezione. A due giorni dalla partenza c’erano 9 corridori sicuri.
Per l’ultimo posto eravamo in ballo io e Cervellini. Un amico chiamò allora Gastone e gli disse che se non avessi partecipato al Giro la mia carriera ne avrebbe fortemente risentito. Nencini s’impose nella scelta e fui inserito in squadra. Lì è cambiato tutto: corse a tappe e non corse di un giorno. Nelle corse di un giorno quando avevo il problema al cuore mi fermavo, gli altri se ne andavano e io non avevo modo di recuperare e mi ritiravo. Se non avessi fatto le corse a tappe la mia carriera si sarebbe interrotta perché in quelle in linea non avevo modo di fare nulla.
Da dilettante aveva ottenuto 4 vittorie e un secondo posto in una settimana, mostrando quanto fossero buone le doti di recupero, che sono fondamentali per una corsa a tappe.
Si, ho sempre avuto un buon recupero. Nella prima tappa di quel Giro, nell’entroterra di Napoli, mi prese l’attacco come al solito. Solo che stavolta non ero vicino a casa e non mi potevo ritirare. Mi ritrovai con gente che si era già staccata e che comunque doveva raggiungere l’arrivo. Stessa situazione nella seconda tappa: mi fermo, riparto ed arrivo al traguardo con qualche altro corridore staccato. Così fino al terzo giorno. Dopo quel terzo giorno l’attacco non si era più ripresentato in quel Giro. Scaricata la tensione nei primi tre giorni potevo da quel momento correre alla pari con gli altri.
Aiutavo Nencini finché era nel vivo della corsa, poi andavo a mettermi in luce nei traguardi volanti. Non c’erano molti corridori vincenti in squadra, c’era bisogno del mio contributo. Facevo le volate sia in pianura sia in salita. Ho battuto Taccone sul Macerone, uno scalatore puro. Vito aveva la squadra a disposizione. Era passato tra i professionisti nel 1961, aveva fatto il Giro di quell’anno e aveva cominciato a vincere presto, era già capitano. Io, invece, avevo vinto qualcosa, ma ero ancora uno sconosciuto. Fu un giro in cui feci parecchia esperienza anche delle dinamiche all’interno del gruppo ma non riuscii a vincere.
I primi risultati cominciano ad arrivare grazie uno spunto da velocista, un buona resistenza in salita e un ottimo recupero. Arriva così il 1964
Ho sempre cominciato a correre tardi, in stagione. Nel 1962 e 1963 La Sanremo era sempre la seconda corsa, con il debutto al Giro del Piemonte, così anche nel 1964. Non andavo a fare le corse precedenti in Costa Azzurra o in Sardegna, dove il clima migliore permetteva di correre anche a fine inverno. Nel 1964 abbiamo fatto il Romandia. Ho tirato la volata all’ultima tappa in velodromo a Ciampi, ma ci siamo confusi – ero inesperto in pista – e siamo arrivati io secondo e lui terzo.
Al Giro d’Italia, con partenza da Bolzano, 130 corridori al via. Nella prima tappa dopo Trento al bivio con Cadine, il cuore fa capricci e mi fermo. Sono ripartito con un gruppetto di 10-15 corridori che erano staccati. Arriviamo con quasi 10’ di ritardo. Decido, visto che sono nel gruppo degli ultimi, di arrivare proprio ultimo, 130°. Alla fine del Giro sarò decimo in classifica con 9’20”, quelli che avevo perso il primo giorno.
Arrivano però anche le prime vittorie.
Il terzo giorno (sempre il punto di svolta), con dentro la Presolana, partii da dietro. Avevo capito che il problema al cuore era dovuto spesso all’eccitazione del momento ai piedi delle salite, per cui all’inizio stavo indietro. Se da una mi parte permetteva di controllare la tachicardia (che non si presentava sotto sforzo) dall’altra non mi favoriva nella conquista dei GPM. A metà salita un altro corridore mi toccò su una coscia per passare ed ecco che il cuore torna ballerino. Mi appoggiai al muro per fare una serie di esercizi di rilassamento. Gli altri intanto se n’erano andati. Tornato in corsa, ho subito raggiunto Nencini, accompagnandolo fino in cima, poi siamo rientrati nel gruppo. Dopo pochi km sono partito in fuga con altri 7-8 corridori. Nonostante il cuore si sia fatto sentire, su tanti strappi brevi, la fuga arriva a San Pellegrino Terme dove vinco in volata battendo Poggiali.
Nencini si ritira nella 15° tappa, da Roma a Montepulciano. Lì cambiò la storia del suo Giro.
Infatti. Il giorno dopo, libero da impegni di gregariato, ho vinto a Livorno. Nella 17° tappa, con arrivo a Santa Margherita Ligure, arriviamo con un gruppo di 20-30 corridori, con tutti i migliori: ho vinto anche lì. Ho perso ad Alessandria, battuto da Mealli, ma ho vinto poi la 20° tappa, la Cuneo – Pinerolo, ricordo della cavalcata di Coppi. Il giorno successivo ho fatto secondo a Biella dietro a Motta. In quelle ultime 5 tappe ho vinto tre volte e sono arrivato secondo altre due volte. Non male, considerando che alla fine di quel Giro vinsi anche la classifica degli scalatori.
Siamo ad un passaggio generazionale, con il tramonto di Nencini e l’ascesa di Anquetil ed Adorni…
L’anno dopo arriverà Gimondi, poi Merckx, Motta e Zilioli. Balmamion che ha vinto due Giri, grandi velocisti come Durante, Zandegù. Eravamo un bel gruppo di corridori.
Ogni sera un letto diverso, mangiare dove capita e cosa capita, soprattutto all’estero dove ci sono abitudine culinarie diverse da quelle italiane. Bitossi si adatta?
Per forza! Quando abbiamo fatto il primo Tour de France nel 1966, con Mugnanini, alla Filotex, abbiamo vinto 3 tappe: una lui e due io. Dopo la corsa a tappe siamo rimasti in Francia per correre le ‘riunioni’. Siamo rimasti fuori casa altri 20-30 giorni. Si correva la sera, in notturna o nel pomeriggio. Ci spostavamo in Francia per 300-400 km. Si dormiva e poi ci spostavamo la mattina presto. Anquetil, per esempio, se le riunioni finivano all’una, mangiava a poi raggiungeva di notte il paese di quella successiva, dove dormiva fino alle 14 e poi correva.
In questi viaggi c’era il problema del mangiare. Inizialmente ci aspettavamo che, come durante il Tour, ci facessero dei piatti adatti alla dieta del corridore; ma se aspetti che nei ristoranti facciano di queste cose muori di fame. Allora avevamo adottato il metodo che, lungo la strada, quando vedevamo che a un ristorante c’erano tanti camion fermi ci fermavamo anche noi: lì si mangiava bene e veloci. In un primo momento abbiamo provato a mangiare in modo salutare, poi ci siamo adattati. Capitavano sere in Bretagna, vicino al mare, in cui ai tavoli dei dirigenti arrivavano aragoste fresche. Magari poco dopo arrivavano Anquetil ed Altig e anche loro sotto con le aragoste. Così anche noi ci siamo adeguati. Lì, con quelle riunioni, ho capito di essere diventato un corridore. Anche se avevo vinto in Italia e anche in Francia, è in quei frangenti che diventi un vero corridore. Credevo in me, avevo anche rispetto per gli avversari, ma con il problema al cuore non ero sicuro fino in fondo.
Dal 1965 al 1972 alla Filotex, nuova incarnazione della Spingoil, il grosso delle grandi vittorie. Fino al 1968 il cuore è ancora un impedimento.
Non vincevo gare in linea in quel periodo, ma potevo rifarmi nelle gare a tappe. Ho vinto anche brevi corse a tappe come la Tirreno-Adriatico (1967) o il Giro della Svizzera (1965). La squadra si era organizzata meglio rispetto alla sua nascita, nel 1963. Cominciavano a esserci programmi più corposi, più inviti, non solo il Giro d’Italia. Nel 1965 vinsi il Giro del Lazio battendo di nuovo Poggiali ma con il cuore fu dura.
Nel 1966 la prima convocazione in Nazionale. Anche questa una storia importante: l’ultima convocazione (come riserva), al termine della carriera, a 38 anni, nel 1978.
Sì, in un paio di occasioni (1975 caduto, 1976 non convocato) non sono andato, ma nelle altre annate ho sempre fatto parte delle squadre.
Comincia a vincere anche le corse in linea, come il primo Lombardia (1967).
Ma quanta fatica per arrivare a quella vittoria! Nel 1966 ero andato bene al Giro e in Francia ma non nelle gare in linea. Prima di andare al Lombardia si disputava la Coppa Agostoni. In questa corsa ho avuto tanti attacchi di cuore. Rimasi indietro ma riuscii a recuperare, anche con l’aiuto dei compagni e mi portai davanti, dove vidi che due corridori erano andati in fuga: Merckx e Gimondi. Fatta la rotatoria per rimettersi nel viale di arrivo partii e feci terzo. Attraversato il traguardo mi dissi: «Basta, non posso continuare a correre in queste condizioni. Vado a casa».
Mancavano 3 giorni al Giro di Lombardia. Arrivai la mattina dopo a casa. L’atmosfera era pesante, tutti dispiaciuti per questa decisione. Alla fine del secondo giorno mi convinsero a provarci. Fu un Lombardia terribile, per me e per i compagni. Alla fine ci ritirammo tutti in insieme ma in quel momento scattò in me qualcosa: «No, non smetto di correre. Anzi, continuo e voglio tornare a vincere il Lombardia». Così feci l’anno seguente.
Anno che partì male a causa di un problema inaspettato…
Nel 1967 ho avuto una stagione strana, poi si è capito perché. Non sono andato ai Mondiali perché nella prova ‘indicativa’ di Camaiore sono arrivato in un gruppo un po’ staccato. Non rendevo, il volto cambiava colore, tendente al violaceo. Non si capiva il perché ma la società, insoddisfatta, mi manda un lettera di richiamo. Continuo ad allenarmi, mancava poco al Giro dell’Appennino. Alla fine di una sessione trovo un filamento piatto nei pantaloncini e scopro di avere la tenia, il verme solitario. Tutto quello che mangiavo lo prendeva lei! Mi ci volle un po’ per debellarla ma fu la svolta. Al Giro dell’Appennino, una settimana dopo, arrivo secondo dopo Dancelli, non non poche difficoltà dovute al cuore.
Pochi giorni dopo ad una gara a Castellania, altro attacco poco prima dell’arrivo, mi passa Dancelli e faccio terzo. Ad Abano faccio ancora secondo, sempre dietro alla banda di Dancelli. Al Giro dell’Emilia terzo; Coppa Sabatini ancora secondo dietro Dancelli. A Peccioli viene fatto il controllo antidoping e poi via verso l’Agostoni, dove vinco in volata. Dopo 3 giorni il Lombardia, che vinco. In pochi giorni ero passato dalla lettera di richiamo, alla scoperta della tenia e alla sua eliminazione, alla trasformazione. Recuperai le forze e, nonostante gli attacchi, ribaltai completamente la stagione. Oggi non si arriverebbe a quel punto, gli esami lo evidenzierebbero subito. Io invece ce l’avevo già al Giro d’Italia. Ho fatto diversi mesi con questo animale addosso. Una volta tolto, non sono mai uscito dai primi tre.
Nel 1968, si alterna ancora tra Giro e Tour (entrambi con due vittorie).
Sì, nel 1967 feci solo il Giro d’Italia, con una sola vittoria. Non andavo per la questione di prima e così non mi portarono al Tour. Ci sono tornato nel 1968, ma non nel 1969 perché avevo un’infezione, non ero in condizione ed ho deciso di non andare. Dal 1970 non me la sono più sentita di andare a fare una corsa a tappe dura come il Tour.
Negli Anni ‘70 c’è un cambio di prospettiva: disputa meno corse a tappe e si concentra maggiormente sulle corse in linea. Il cuore ha smesso di fare resistenza.
L’ultimo attacco fu al Giro della Toscana del ’68, che ho vinto. In quell’edizione si saliva a Pratolino dal Miglio. Eravamo rimasti io e Motta nel tratto più duro. Motta cede (era il periodo in cui aveva il problema all’arteria) senza che io abbia attaccato. Sono rimasto solo, ma nello strappetto poco prima di arrivare all’Olmo mi prese un attacco. Riesco a continuare senza fermarmi in direzione di Fiesole, dove la strada scende leggermente. Mettendomi in posizione la tachicardia è passata e sono riuscito ad arrivare e vincere. Da quel momento non ho avuto più attacchi ed ho cominciato a vincere le corse di un giorno.
E che corse! Campionati italiani, Giri di Lombardia, tutte le classiche italiane, ancora tappe al Giro.
Negli anni pari (‘66-‘68-’70-’72-’74) andavo più forte. Doppietta nel Campionato Italiano nel 1970 e 1971 e secondo nel 1972, oltre al primo posto nel 1976.
Alla fine del 1972 l’uscita dalla Filotex. Può raccontarci cosa successe?
Al Giro d’Italia, nella tappa di Bardonecchia, sulla salita finale, il Jafferau, in fuga c’era Fuente che era andato via sul Sestriere. Lo inseguirono Merckx e Gimondi, mentre io mi trovai con Motta, De Vlaeminck e altri. Motta propose di andare via regolari per poi rientrare nel tratto pianeggiante successivo. Lentamente li stacco tutti. Cominciarono a risalire le macchine, alle quali erano attaccati i corridori attardati. Perdo di morale e rallento. Mi affianca la macchina della squadra con Bartolozzi, che mi chiede cosa stesse succedendo: «Succede che mi passano tutti perché sono attaccati alle macchine», gli rispondo. E a lui viene di replicare: «Fallo anche te!». Passò la macchina della Kas con un corridore già attaccato e io mi attacco a lui. All’epoca c’era la regola che dopo 8 infrazioni al regolamento eri espulso dal Giro, fui costretto a tornare a casa (avevo già fatto altre infrazioni in precedenza). La cosa viene divulgata ai giornalisti e il direttore sportivo si risente. Scoppia il finimondo. Tornato a casa vengo convocato dal direttore generale. Ma quando mi presento mi rimandano a casa senza neanche ricevermi.
Ci sarebbe da partecipare a Gran Premio Città di Camaiore, ma faccio solo un circuito a Fucecchio. Una settimana dopo c’è il Giro dell’Appennino. In quella corsa ho fatto secondo, dopo essermi staccato sulla Bocchetta e poi aver ripreso. Ma loro pensarono che fossi arrivato secondo volutamente. C’erano dei compagni, ma è come se avessi corso da isolato.
Era mancata proprio la squadra…
Da quel secondo posto ci fu la rottura con al Filotex. Mi ero un po’ demoralizzato, anche perché avevo fatto secondo ai Mondiali. Non avevo più tanta voglia, avevo ormai 32 anni, quello che potevo – pensavo – l’avevo già fatto. Mentre penso di ritirarmi ecco che si presenta l’occasione della Sammontana. Mi contatta Alfredo Martini che mi propone questa ‘squadretta tranquilla’ dove la mia esperienza può essere utile e posso ritrovare serenità. Mi convince e da lì riparto (1973). Alla Sammontana abbiamo fatto un buon lavoro. Ho vinto e ho aiutato gli altri a vincere. Abbiamo vinto il Campionato a squadre. Con la dirigenza, però, non ci siamo trovati d’accordo per l’anno successivo. Sono passato quindi alla SCIC dove il primo anno ho fatto bene mentre il secondo, il ’75, è stato discreto, rallentato dall’incidente che mi ha costretto a sospendere l’attività. E da lì invece di smettere ho continuato a correre fino al 1978.
Ed è questo che colpisce. Per arrivare ad essere il terzo italiano più vittorioso vuol dire aver sempre vinto tanto, in ogni stagione.
Non facevo più 20 vittorie a stagione, mi fermavo a 7-8, ma ero ancora competitivo.
Nel 1976 (alla Zonca-Santini) vince il terzo Campionato Italiano, il Laigueglia, secondo alla Milano-Torino e due gare in Belgio. Per essere un ciclista di 36 anni vuol dire aver continuato a fare il mestiere con grande dedizione.
Nel 1977 ho fatto terzo ai Mondiali dopo aver vinto il GP di Camaiore. Ero nella fuga con Moser e Therau. Siamo andati via in discesa, senza quasi spingere. Il gruppo si è rotto lì. Quando mi sono girato ho visto Saronni davanti a tirare. Gli ho fatto cenno di non continuare, eravamo due italiani davanti. Saronni ferma la sua azione e prendiamo un po’ di vantaggio. Quando abbiamo ripreso la salita il gruppo era vicino, a 200 m. Ho detto a Francesco: «Stanno arrivando, conviene aspettarli». Lui invece ha preferito accelerare in salita. Io ero già in crisi di fame, non avevo preso la borraccia con gli zuccheri nel giro prima e così mi sono staccato. Il gruppo mi ha ripreso quasi in cima. Al passaggio sul traguardo ho preso la borraccia e l’ho bevuta tutta.
Al giro successivo, all’attacco della salita stavo bene. Quando Kuiper porta via un gruppetto di 5-6 corridori io sono con loro. La salita fa la selezione finché non restiamo l’olandese e io. Kuiper andava su forte, facevo fatica a stargli dietro. Gli chiedevo in francese di rallentare. Gli dissi che non avrei fatto la volata se non mi avesse staccato. L’olandese invece cercò per tre volte di lasciarmi. Ho fatto uno sforzo per restare a ruota fino allo scollinamento! Quando poi Kuiper mi ha chiesto i cambi mi sono rifiutato e siamo andati a giocarci la volata, dove l’ho battuto arrivando terzo.
Quando ci trovammo, dopo la fine della carriera, era ancora arrabbiato per quell’episodio. Se mi fossi ricordato di prendere la borraccia nel giro giusto, comunque, Moser e Thurau non mi avrebbero staccato. Nell’ultimo giro con Kuiper siamo andati fortissimo.
Avremmo fatto doppietta?
Questo forse no, ma non mi avrebbero staccato. A inizio corsa, dopo 50-60 km, ho chiamato la macchina con Martini, il quale si avvicina preoccupato che ci fosse qualche problema. Lo tranquillizzo e gli dico: «Ce l’ho tutti in pugno». Sul finale richiamo la macchina e dico a Martini: «Ce l’ho ancora tutti in pugno, ma li tengo con il mignolo». Battute per sdrammatizzare.
Tra il 1977 e il 1978 comincia una seconda carriera, quella nel ciclocross. Che tipo di allenamenti faceva? Aveva già cominciato ad andare per campi e sterrati?
Allenamenti specifici pochi. Sullo sterrato qualche volta, fino al 1967, per tornare a casa invece di fare il giro da Signa, allora salivo su ma era una strada brutta e pericolosa per il rischio di forare. Sulla salita di Vitolini c’ho vinto da dilettante ed era sterrata. Oppure per andare a Empoli salivo da Carmignano il Montalbano, che era sterrato. Non erano comunque strade che cercavo.
Come nanque l’idea di fare ciclocross?
Non c’è un momento preciso. Ho pensato: «voglio provare a fare il ciclocross», per non stare fermo d’inverno. Le prime corse le ho fatte con la bicicletta che usavo durante la stagione su strada. Non era adatta, s’impantanava. Durante una corsa a Cantù, uno tifoso mi disse: «Bitossi, stai più indietro sulla sella; non poggiare le mani, stai leggero sulla ruota davanti». Sembrava poco, ma funzionò. Nel 1977 dall’ALAN mi fecero avere due biciclette per fare il ciclocross.
Uno stradista che si adatta così bene al ciclocross non è facile da trovare.
Lo facevo seriamente, mi allenavo. Allora si correva con i dilettanti. Il primo anno arrivavo secondo o terzo, il secondo anno battevo il più forte degli italiani. Mi ricordo quando la gara di Solbiate Olona era internazionale dove sono arrivato terzo, o quarto, e dietro di me arrivò Eric De Vlaeminck, uno che vinceva i Campionati del Mondo di ciclocross. Le corse erano più dure di quelle di adesso e per uno della mia età (37/38 anni) competere con ragazzi di 25 anni era difficile.
Alla fine del 1978, nello stesso Giro dell’Emilia (4 ottobre) in cui aveva debuttato, si ritira.
Avevo deciso da tempo. Non ero più competitivo: era più difficile trovare la condizione, avere la grinta, tenersi nel mangiare. Vedi che fai fatica e basta, non ottieni grossi risultati. Capisci che è giunto il momento di fermarsi. Sono arrivato fino al Giro dell’Emilia ma sentivo che non era più il caso di andare avanti. Così ho pensato: «Ho cominciato con il Giro dell’Emilia e voglio finire lì». Alla stessa corsa si sono ritirati anche Gimondi e Poggiali. In pratica invece di andare a fare le salite siamo andati direttamente in albergo. Era giunto il momento di lasciare.
Una nota dolente: il Mondiale del ’72 perso al fotofinish contro Marino Basso e sul quale si è scritto molto, viste le controversie della situazione. Cosa disse Mario Ricci, CT italiano a quel Mondiale, per ricomporre la situazione?
Disse qualcosa, ma aveva vinto; eravamo arrivati primi e secondi, c’era poco da dire. Più che una coltellata alle spalle, forse Basso poteva aver stimolato qualcuno a tirare per riprendermi, perché si sentiva sicuro di vincere in volata. Non ha fatto nulla per proteggermi. Io, da parte mia, ho commesso tanti errori, perché col vantaggio che avevo all’ultimo chilometro non era possibile non vincere. L’errore che avevo fatto io era stato quello di cambiare rapporto, metterlo più agile, ma era troppo agile e quindi ho rimesso quello più duro, ma le gambe si sono piantate.
Poi il lato della strada sbagliato.
Sì, quello dipendeva dalle macchine dietro, che non mi consentivano di vedere la reale distanza di quelli che inseguivano e mi spostavo per vedere meglio, ma ho trovato il vento trasversale contrario. Bastava che avessi mantenuto il rapporto agile e sarei arrivato. Ho fatto tanti errori e gli altri dietro non hanno fatto niente per me. Merckx è partito per fare secondo ed invece io ero fermo. La volata l’hanno fatta per il secondo posto.
In quell’occasione era Basso il capitano?
No, ognuno di noi aveva dei ruoli. Basso doveva controllare Merckx (c’era un po’ d’attrito tra di loro). Basso veniva dal Tour de France, che era terminato da 15 giorni, quindi aveva una grande condizione. Gimondi, se c’era la possibilità, doveva entrare nelle fughe o proteggere quello che andava via, un po’ com’era successo l’anno prima.
Quindi non era una squadra con un capitano unico, ma che aveva più soluzioni.
Eravamo in 3-4 ad avere possibilità d’azione. In quel Campionato ho sbagliato due volte. La prima nel giro in cui Merckx è andato all’attacco, perché sono andato dietro. Mi ha chiesto il cambio, ma io in quel momento non potevo, la strada non me lo consentiva. Se fossimo arrivati in cima alla salita ancora soli avrei collaborato.
Nel frattempo però era rientrato Zoetemelk. Dalla testa del gruppo intanto, a seguito di qualche attacco, rientrarono Basso e qualche altro, ma mancava Gimondi. Siamo rimasti in 7 davanti. Basso doveva controllare Merckx quando scattava ma non successe molto a parte un tentativo di Guimar. Da dietro sono rientrati; ma mentre rientravano sono partito io. Ho pensato: «Siamo in 7. Ho due compagni di squadra. Guimar ha già fatto lo sforzo e non mi segue; Merckx non viene a riprendermi perché è un amico. Restano solo Zoetemelk e Mortesen. Se tirano solo loro due e gli altri non tirano non mi prendono». Ho preso subito il vantaggio e ho provato a tenere. Dietro però hanno cominciato a tirare. Non so se Basso abbia dato qualche cambio. Forse c’era anche un accordo tra Mortesen e Guimar che correvano in Francia. Molto deve aver tirato Zoetemelk. Poi è partito Merckx lungo, io mi ero piantato, e fine della storia.
Cosa fece alla fine della carriera?
Con il ciclismo basta. Si, sono rientrato temporaneamente come direttore sportivo, soprattutto per amicizia.
E le bocce?
Ci giocavo già da ragazzo, finché non ho cominciato a correre in bicicletta. Andavo a vedere gli altri: giocava il babbo, giocava lo zio. Loro avevano una gran passione e qualche volta, quando tornavo tardi alle feste, li trovavo ancora là, in piena notte, a giocare. Finita la carriera mi è scattato qualcosa dentro e mi sono appassionato. Sono andato a vedere qualche partita e ho cominciato a giocare. Vedevo che avevo ripreso subito confidenza. La moglie era un po’ contraria, ma io le ho detto: «Vedrai che io vincerò anche a bocce. Perché quelli che vincono i tornei ora io li battevo da giovane e tanto stupido non ero, vedrai si torna a vincere».
E in effetti fu così che andò, visto che è diventato Campione Italiano Over 60.
Sì, anche se inizialmente nei tornei non rendevo. Poi ho preso confidenza e sicurezza. Lì bisogna essere calmi, tranquilli. Non puoi andare lì eccitato per vincere, allora non fai nulla. Giocherei bene ancora adesso, però il fisico non mi regge. Non posso avere troppa tensione, sento che mi da fastidio. Le bocce sono una passione, un divertimento, un passatempo. La bicicletta ormai non mi dava più nulla. Potevo andare solo in pianura.
Per chiudere, un ricordo di Gerolamo Craviotto, detto ‘Carbonin’.
Gerolamo era di Varazze ed era un massaggiatore. Aveva questo soprannome per via del babbo che vedeva il carbone. Era stato massaggiatore alla Ignis e di altri corridori prima di me, tra cui Gaul vittorioso con Guerra al Giro del ‘59. I corridori che andavano ad allenarsi in Riviera si fermavano a Varazze da lui. Dalla Carpano è venuto alla Filotex ed è stato in squadra fino al 1972. Successivamente è andato alla squadra di calcio del Genoa, però il Giro d’Italia continuava a farlo. C’erano amicizia ed affetto tra noi. Sono passato da lui a trovarlo quando sono partito per il viaggio di nozze. ‘Carbonin’ era una figura importante, un amico, una brava persona; si scherzava facilmente insieme. Peccato che ci abbia lasciato troppo presto. Si era impegnato per far arrivare le tappe del Giro a Varazze. È stata una figura importante per me, perché è stato bravo come massaggiatore, come uomo e come amico.
Il tempo con Franco Bitossi è volato, come ha fatto tante volte lui in sella alla bicicletta nel corso della sua incredibile carriera, emozionale e lunghissima. Tanti auguri Cuore Matto.