«Ti prego Dio, liberami da quest’inferno di fatica».
Furono queste le parole urlate da Maurice Garin a pochi chilometri dall’arrivo della seconda edizione della Parigi-Roubaix, distrutto ma ormai al termine della lunghissima fuga che lo vide poi vincitore. Era il 18 aprile del 1897. Terribile e mistica, la Roubaix è la gara più amata, la più odiata, la più temuta, la più dura per il fisico e per la mente, la più ambita tra le classiche del ciclismo, la regina di tutte le corse. È l’Inferno del Nord, è la corsa del pavé. Una roba per pochi eletti.
Si stima che complessivamente ci siano almeno sei milioni di ciottoli incastonati nei vari settori. Si cade spesso e ancora più spesso si fora. In molte altre gare è piuttosto facile rientrare in gruppo mentre alla Roubaix è molto più complicato, anche perché spesso non esiste un gruppo vero e proprio. Quando c’è il sole, i tratti in pavé sono pieni di polvere. Quando piove la terra diventa fango e le pietre diventano ancora più scivolose. Le biciclette usate dalla Parigi-Roubaix sono pensate apposta per quel terreno ma sono comunque biciclette con ruote fatte per andare su strada, non su quelle pietre. È lì che si fa la differenza.
Theodore Vienne e Maurice Perez, due filatori di Roubaix, decisero nel 1895 di costruire un velodromo nei pressi del parco Barbieux, che si trovava tra il comune di Croix e Roubaix ed era il più grande parco del nord della Francia. I lavori iniziarono nell’aprile del 1895 per terminare il mese successivo sotto la direzione dell’architetto Dupire. Inaugurato il 9 giugno con 7 corse, il Vélodrome Roubaisien (letteralmente: di Roubaix) aveva una pista in cemento lunga 333,33 m, poteva vantare una grossa capienza ed era ritenuto una delle migliori piste dell’epoca. Vienne e Perez di lì a poco pensarono di organizzare una corsa che partisse da Parigi e arrivasse al nuovo velodromo al fine di valorizzarlo il più possibile. Fu così che la sera di sabato 8 febbraio 1896, dopo una cena tra imprenditori, pensarono di chiedere l’appoggio a Louis Minart, capo-redattore del giornale sportivo Le Velo. Minart acconsentì, assicurando il suo impegno a finanziare il progetto. L’organizzazione della corsa fu affidata a Victor Breyer – inviato di fiducia del giornale – che si fece aiutare dall’amico e collega Paolo Meyan.
Il sabato successivo i due partirono in missione per testare e valutare il percorso con una Panhard 6CV fino ad Amiens, poi Breyer proseguì in bicicletta fino a Roubaix. Pedalò per tutto il tempo sotto una tormenta di pioggia e vento su quel pavé minaccioso e arrivò esausto tanto che inviò un telegramma a Minart per invitarlo a desistere, poiché una competizione simile avrebbe rappresentato un pericolo per tutti i corridori. Minart, invece, cominciò a sentire aria di leggenda e, fiutando l’epopea, decise che la corsa si sarebbe disputata.
LA PRIMA METà DEL ‘900
La prima edizione della Parigi-Roubaix si disputò il 19 aprile 1896, domenica di Pasqua (la chiesa protestò a lungo per questa scelta quantomeno irriverente). Il via venne dato da un colpo di Lefaucheux – un revolver militare francese – davanti al ristorante Gillet, a Porte Maillot, alle 5.30. Gli iscritti alla corsa erano 109 ma dopo la terribile ricognizione del giorno prima i partenti furono solo 51, di cui 45 internazionali e 6 amatori della circoscrizione di Lilla. Primo a tagliare il traguardo, dopo 280 km, fu il tedesco Josef Fischer in 9 ore e 17 minuti (media 30,162 km orari). Vinse un premio in denaro di 1000 franchi, pari a sette volte il salario mensile di un minatore dell’epoca. Arrivarono al traguardo in 32, tra i quali 4 amatori.
Fischer tagliò il traguardo per primo dopo aver rintuzzato un importante attacco della prima ora da parte del gallese Arthur Linton, involandosi in una lunga fuga solitaria iniziata nei pressi di Amiens. Questo nonostante il tedesco fosse caduto per tre volte lungo il percorso, come Cristo sul Golgota. Secondo giunse il danese Charles Meyer, staccato di 26 minuti. Terza posizione per Maurice Garin e quarto posto per il già citato Linton, che finì steso sulle pietre per ben sei volte arrivando al traguardo in stato di semi incoscienza. Albert Dumas, ultimo classificato, arrivò a venti ore da Fischer, in quanto aveva sbagliato strada nei pressi di Vertain allungando così il percorso di oltre cento chilometri. Solo i primi quattro arrivarono entro un’ora dal vincitore
Alla seconda edizione, nel 1897 partirono in 58 corridori – 32 professionisti e 26 amatori – e ne arrivarono al Velodromo 34. Questa volta vinse Maurice Garin, un piccolo corridore di un metro e 63 centimetri per 51 kg. Prima di salire in bicicletta faceva lo spazzacamino e sulle pietre volava. Soltanto nel 2004 si scoprì che il corridore di origini valdostane, emigrato Oltralpe a 13 anni, aveva ottenuto la cittadinanza francese solo nel 1901, e non al raggiungimento del 18° anno di età come sembrava all’epoca. Per cui a fianco del suo nome, nell’ordine d’arrivo, compare oggi il Tricolore sabaudo.
Dalla quarta edizione iniziò l’egemonia dei corridori francesi, che per molti anni dominarono la corsa delle pietre. Una delle figure più incisive fu quella Hippolite Aucouturier (in copertina su BE38) che riuscì ad aggiudicarsi le edizioni 1903 e 1904. Quella del 1903 fu una Roubaix tormentata e fu anche l’ultima dove i corridori poterono usare i Pacers, ovvero componenti della squadra a cui era consentito tagliare l’aria al proprio atleta mediante l’uso di motocicli, automobili e persino tandem. La corsa fu caratterizzata da una fuga iniziale che rischiava di prendere il largo ma leggenda vuole che Aucouturier, dopo aver scolato un’intera bottiglia di vino di Borgogna per riscaldarsi dalla fredda pioggia battente, ordinò ai suoi compagni di squadra della Crescent di rientrare sulla fuga e, appena ripresi gli attaccanti, allungò lui stesso insieme a Claude Chapperon, Louis Troussellier ed Edouard Wattelier. Il finale fu a dir poco rocambolesco quanto incerto: Chapperon arrivò per primo al velodromo ma non trovò la sua bicicletta (i corridori erano soliti cambiare mezzo per lo sprint finale). La trovò invece Aucouturier che lo seguiva a pochi secondi, e così “le Terrible” volò verso il traguardo coprendo i 268 chilometri a 29,104 di media.
Fino al 1914 le vittorie furono tutte francesi con Lucien Lesna, Hippolyte Aucouturier e Charles Crupelandt che trionfarono due volte a testa. Solo il belga Cyril Van Hauwaert nel 1907 e il lussemburghese François Faber nel 1913 riuscirono a mettere le ruote davanti a quelle dei nostri cugini d’Oltralpe. In quegli anni, però, gli occhi furono tutti per Octave Lapize, primo corridore a vincere per tre volte consecutive la Parigi-Roubaix (1909,1910 e 1911).
La corsa si fermò durante il primo conflitto mondiale e riprese nel 1919 con un itinerario diverso dal solito, dato che il velodromo di Roubaix era inutilizzabile. Furono gli anni in cui cominciarono a vincere i corridori belgi, dato che la concomitanza con il Giro delle Fiandre li trovava sempre in ottime condizioni. Un dominio che sarebbe proseguito con un rapporto di tre vittorie belghe contro una degli altri paesi fino al 1978, anno in cui vinse Francesco Moser. Il plurivincitore nel ventennio fino al 1939 fu Gaston Rebry, il primo “Mr.Roubaix”, che si affermò nel ’31, nel ’34 e nel ’35. Arrivò in questi anni è la prima vittoria italiana, Garin a parte, per merito di Giulio “Jules” Rossi, parmense ma emigrato in Francia fin da piccolo, che trionfò nel 1937. Quell’anno Giulio vestiva i colori della Thomann e in quel piovoso giorno di Pasqua, poco dopo il tratto di Arras, si trovò in fuga con i belgi Vervaecke, Danneels e Marcel Kint. Rossi sapeva che in volata avrebbe perso così, a dieci chilometri dall’arrivo, impresse un forcing irresistibile e rimase solo ma – ironia della sorte – trovò un passaggio a livello chiuso e fu raggiunto dagli altri. Contro ogni pronostico, però, arrivato nei pressi del Velodromo riuscì a staccare tutti con un allungo poderoso, cogliendo una vittoria tanto rocambolesca quanto insperata.
La corsa si interruppe nel 1940 ed ebbe uno stop di tre anni, in quanto il territorio venne occupato dalle truppe tedesche durante il secondo conflitto mondiale.
VITTORIE ITALIANE
Dal 1943 a oggi, la Parigi-Roubaix non ha più subito interruzioni e ha catturato con il proprio fascino generazioni di appassionati e campioni. Arrivare con le braccia alzate sul traguardo del velodromo è stato per molti, moltissimi un obiettivo irraggiungibile mentre per altri – pochi – la definitiva consacrazione. Sebbene, come dicevamo, per quattro decadi la corsa è stata quasi esclusivamente appannaggio dei corridori belgi, non sono mancate le vittorie italiane, spesso cariche di significati profondi e caratterizzate da episodi memorabili.
Indimenticabile fu, per esempio, l’edizione del 1949, che è a oggi l’unico caso di vittoria ex æquo nella storia della Roubaix. In quel tormentatissimo arrivo, il gruppo di fuggitivi capeggiato dal francese André Mahé sbagliò, su errata segnalazione di un gruppo di poliziotti in servizio alla corsa, l’ingresso nel velodromo. I corridori furono costretti a scavalcare una recinzione bici in spalla, compiendo solo mezzo giro prima di finire in volata dove appunto vinse Mahé. Poco dopo arrivò il gruppetto degli inseguitori in cui “l’altro Coppi” – ovvero Serse, fratello del grande Fausto – regolò i compagni di avventura. Ne seguirono mesi di discussione, con ricorsi e contro ricorsi, nei quali la vittoria fu assegnata prima a Coppi, poi a Mahè e infine – addirittura a novembre – certificata con un salomonico ex æquo grazie anche all’incisivo contributo dell’allora presidente della federazione italiana, Adriano Rodoni.
L’Italia, però, si prese tutta la vittoria l’anno successivo, nel 1950, proprio con Fausto Coppi in persona. Al termine di una lunga giornata di schermaglie volte a evitare di portarsi i belgi fino al traguardo, perché considerati troppo veloci in volata, il Campionissimo si lanciò in una poderosa fuga a 45 km dall’arrivo, seminando gli avversari. Maurice Diot, secondo all’arrivo con 2’41” di distacco, disse ai cronisti: «Sono ben felice di avere vinto la Parigi-Roubaix». Quando gli fecero notare che il vincitore fosse Coppi, chiosò: «No, Coppi oggi era fuori concorso».
In totale il Tricolore ha sventolato 13 volte sul podio di Roubaix. Dopo i successi già citati, a trionfare nel 1951 fu Antonio Bevilacqua, portacolori della Benotto, un giovanottone veneto di Santa Maria di Sala che nel finale riuscì a staccare di ruota due mostri sacri del calibro di Rik Van Steembergen e Louison Bobet. Bisognerà poi aspettare fino al 1966 per vedere un altro italiano domare le pietre della Roubaix. Fu il grande Felice Gimondi, alla sua prima partecipazione, che in seguito descrisse molto bene la sua corsa con poche parole: «Cosa mi ricordo di quel giorno? Il fango, un mare di fango. Ma anche il gelo, che però non m’impediva di mulinare sui pedali come pochi. Ricordo che un belga era all’attacco, aspetto che qualcuno si muova. Parte Dancelli e io gli vado dietro. In un amen torniamo sul fuggitivo, poi a Mons-en-Pévèle parto deciso e li lascio tutti lì. Gli ultimi 43 km li faccio da solo: arrivo al velodromo con oltre quattro minuti di vantaggio su Jan Jansen».
DA MOSER ALLA MAPEI
Storici sono poi gli anni di Francesco Moser, nei quali lo Sceriffo vinse ben tre edizioni di fila dal 1978 al 1980, sempre per distacco. «Io lassù mi sono imposto con una tattica semplice e collaudata: stroncando la concorrenza sugli ultimi tratti di pavé, quelli più duri, uno ad uno, arrivando da solo», disse. Nel 1978 vinse in maglia iridata, staccando il leggendario Roger De Vlaeminck, suo compagno di squadra alla Sanson che di Roubaix ne vinse addirittura quattro. Stesso copione nel ’79, quando regolò sempre De Vlaeminck passato nel frattempo alla Gis. Nel 1980, a 25 chilometri dall’arrivo, Moser staccò anche l’ultimo corridore che era riuscito fino ad allora a restargli a ruota: il francese Gilbert Duclos Lassalle, che anni dopo, nel ’93, beffò il compianto Franco Ballerini per soli 8 centimetri.
Le ultime vittorie italiane alla Parigi-Roubaix arrivano pochi anni dopo e s’inquadrano nella leggendaria e rivoluzionaria “campagna francese” che la Mapei e Colnago portarono avanti per andare a vincere sul pavé con biciclette in carbonio (le favolose C40), impresa da tutti considerata impossibile. Fu in quel contesto che Ballerini si prese una consistente rivincita nel 1995, quando – in fuga con Dietz, Tafi, Vanderaerden, Ekimov e Bortolami – staccò tutti a 32 chilometri dal traguardo e andò a vincere presentandosi da solo al Velodrome con 1’56” di vantaggio. L’anno dopo – il ’96 – la Mapei farà saltare il banco con lo storico arrivo in parata di Museeuw, Bortolami e Tafi condannando a morte le bici in acciaio.
Ballerini, invece, si ripeterà nel 1998 in una giornata a dir poco rocambolesca, quando cadde due volte nella Foresta di Arenberg a causa di Andrei Tchmil, che lo trascinò a terra, ritrovandosi con una contusione alla coscia, una ruota rotta e 7’35” di ritardo dal gruppo di testa a 62 km dal traguardo. Solo la rabbia gli permise di ripartire a caccia dei fuggitivi, riprendendoli uno a uno e fuggendo da solo a 45 km dal traguardo, dove sarebbe arrivato con 4’16” su Andrea Tafi.
Ed è proprio di Tafi l’ultima vittoria italiana alla Roubaix, l’11 aprile del 1999, quando il corridore della Mapei arrivò da solo al traguardo a braccia alzate. Qualche anno più tardi, il campione toscano racconterà così la sua impresa: «Il giorno prima della partenza avevo detto al mio compagno di stanza, Paolo Fornaciari, di starmi vicino perché l’indomani avrei fatto “il numero”. Segno del destino, appena inizio il Carrefour foro e mi rialzo pensando sia finita. Invece vedo un omino col berretto della Mapei! Penso che se ha la ruota vado a vincere la Roubaix… E ce l’aveva, che sia benedetto! Cambio ruota in 40 secondi, riparto e raddoppio il vantaggio: è tutta adrenalina. Senza quella foratura, chissà, magari mi avrebbero ripreso».
I PUNTI CHIAVE
Il Carrefour, appena citato, è uno dei tratti caratteristici della Parigi-Roubaix, il cui percorso – ormai diventato storico e con tratti di pavé protetti in quanto Patrimonio dell’Unesco – presenta dei passaggi iconici che spesso sono la chiave per la vittoria: sono i famosi e temuti segmenti a cinque stelle, i più difficili tra i 30 circa che sono presenti in gara.
Il primo è appunto il Carrefour de l’Arbre (letteralmente “crocevia dell’albero”), incastonato nella campagna di Gruson. Si racconta che i suoi ciottoli fossero una volta i mattoni di un castello del XV secolo smantellato dalle truppe napoleoniche per tracciare una strada adatta ai cavalli del generale francese. Nacque così uno dei segmenti più terribili da affrontare, una passerella infernale che dal 1958 fa sanguinare le mani e sconquassa le ossa dei ciclisti che osano sfidarlo. Il Carrefour è lungo poco più di due chilometri, il fondo è terribile, le curve sono da brivido e uscirne indenni è già un piccolo miracolo. L’approccio, sorprendentemente, è esattamente il contrario di quello che si può pensare: solo andando a tutta si riesce a galleggiare sul pavé mentre rallentando si viene risucchiati dalla “mota”, il fango che i minatori francesi conoscone bene e che diventa letale in caso di pioggia.
Il secondo tratto terribile è Mons-en-Pévèle: tre chilometri d’inferno con curve, controcurve, discese e leggere salite che lo rendono cruciale per chi nutre ambizioni di vittoria. A 70 chilometri dall’arrivo, infine, bisogna fare i conti con la Foresta di Arenberg: 2400 metri da incubo o da sogno, perché quelle pietre sono la linea di demarcazione tra il trionfo e il fallimento. È scura, la foresta, e i faggi che la popolano sono enormi e intimidatori. Il pavé a schiena d’asino, ricoperto di sterco di cavallo e polvere del carbone delle miniere di Arenberg, non ha rispetto per nessuno e va affrontato come se fosse un drago che vuole disarcionarti da cavallo.
Molte sono le insidie di questa corsa leggendaria, tanto dura quanto ambita in cui bisogna fare i conti anche con la polvere, il vento, la pioggia, gli invadenti tifosi a bordo strada, gli incidenti, le forature, le auto dell’assistenza che non possono transitare sul pavé. La Roubaix è una vera sfida tra l’uomo e le insidie del mondo. Guy Lagorce, celebre giornalista francese, ha detto: «La Roubaix inizia come una festa e finisce come un incubo».
IL VELODROMO
Un incubo che svanisce quando si arriva nel velodromo, dove i corridori si lasciano alle spalle chilometri e chilometri di disumana fatica e raccolgono tutte le loro ultime energie per l’agognato finale. Si trattava, nei primi anni, del già citato Vélodrome Roubaisien. A quel tempo Parigi, già una sfavillante metropoli appena uscita dall’Expo 1889 che le aveva lasciato in eredità la Torre Eiffel, era anche la culla del grande ciclismo che stava crescendo in tutta la sua popolarità. Roubaix, invece, era una lontana cittadina legata alla produzione tessile posta al confine con il Belgio. Il velodromo di cui si era dotata serviva appunto per nobilitarla.
La pista, dopo il primo florido periodo, venne ammodernata nel 1910. Alla superficie originaria fu sovrapposta una pavimentazione in legno e vennero realizzate due curve paraboliche che raggiungevano i 45° di pendenza. Furono ricostruite le tribune portando la capienza a ben 11.000 posti. La Parigi-Roubaix continuò ad arrivare al Roubaisien fino al 1914, quando le competizioni ciclistiche vennero interrotte a causa della Prima Guerra Mondiale. Danneggiato durante il conflitto e rimasto inutilizzato per alcuni anni, il velodromo venne definitivamente abbattuto nel 1924 per lasciare spazio a una zona residenziale.
Dal 1919 in poi la collocazione del traguardo cambiò diverse volte fino al 1936, quando venne inaugurato l’attuale Vélodrome “André Pétrieux”, che da allora – salvo una brevissima parentesi – ha sempre ospitato l’arrivo della corsa. A oggi, il velodromo è dotato di una pista in cemento lunga 500 metri con curve di una tenue pendenza, di una tribuna coperta sul rettilineo d’arrivo e di gradinate ricavate sui terrapieni circostanti. Un velodromo antico che riesce a dare emozioni uniche anche anche ai protagonisti del ciclismo moderno.
SCOLPITI NELLA PIETRA
La Roubaix è unica anche al momento della premiazione dato che, dal 1977, i vincitori ricevono un blocco in pietra. In precedenza veniva consegnata solo una banale medaglia. A suggerire questa nuova soluzione fu Francesco Moser, che propose appunto di lasciare ai corridori una testimonianza concreta dell’inferno che avevano appena attraversato. Il trofeo del vincitore deve rispondere ad alcune caratteristiche: non deve pesare più di 12 kg, cui si sommano gli 8 del basamento, deve essere originale e non può essere assolutamente copiato.
Ma non è ancora finita, perché la solennità di questa corsa non finisce con le premiazioni. Il sollievo, al termine di una tortura durata un giorno, viene dato dal rito della doccia all’interno del velodromo, che i corridori fanno tutti insieme, stretti gli uni agli altri e senza privacy. L’edificio è tozzo, disadorno, con l’intonaco sciupato, rimasto tale e quale a quando fu costruito oltre 80 anni fa. Le docce sono un santuario, divise a settori, e ognuna ha una targa con la data dell’edizione e il nome del vincitore. Anche oggi che i motorhome sono provvisti di tutte le comodità possibili, i corridori non vogliono rinunciare a questo momento catartico, perché la Roubaix è un dramma e un’eccezione in tutto, e va espiata fino in fondo.
Perfino l’acqua fa male sulle ossa rotte, sulle mani che non smettono di tremare, su quella polvere che si scioglie assieme ai grumi di sangue sul corpo lasciati da una caduta, ricordando a quei ragazzi che dopo aver scalato il Carrefour, essere stati inghiottiti dalla foresta di Arenberg e dopo avere sconfitto il selciato scheletrico di Mons en Pévèle ora sono diventati uomini… o forse di più!