Il gregario è un uomo umile, forte, lucido, generoso.
È un atleta consapevole di essere lì solo per aiutare il capitano a vincere, per proteggerlo dal vento. Il gregario tira il gruppo per il suo capitano, gli sta vicino per tenerlo fuori dai guai, gli dà la sua ruota perché l’ammiraglia è ancora lontana. Il gregario è colui che fatica nell’ombra, per far vincere un altro, non viene celebrato negli almanacchi e in pochissimi lo ricorderanno. Un ritratto che pare ricalcato sulla figura di un corridore che ha iniziato la sua carriera negli Anni ’60: Wladimiro Panizza, uno che per questo sport darà tutto. Panizza è stato un gregario di lusso, un gregario che qualche bella gara però l’ha pure vinta.
Il padre Angelo è un partigiano comunista e quell’inverno del 1944 lo trascorre nascosto tra le montagne a combattere, con in testa quel suo figlio che sarebbe dovuto venire al mondo di lì a pochi mesi. Angelo sognava per lui un mondo più libero e intanto nei boschi della Linea Gotica si sparava giorno e notte. Il 5 giugno del 1945, a guerra finita, nasce a Fagnano Olona il figlio quartogenito del partigiano Angelo Panizza che si chiamerà Wladimiro in onore di Lenin. Tutti lo chiamano Miro e del partigiano ha preso la tempra e la combattività. Se ne accorge da subito Enzo Negrelli, di professione fruttivendolo, ma anche storico presidente dell’Unione Ciclistica Cassanese, che rimane estasiato nel vedere il piccolo Panizza affrontare tutti i giorni con la sua bicicletta le collinette della zona per recarsi al lavoro. Negrelli gli parla, lo convince e così Miro approda al ciclismo nelle categorie giovanili.
Miro ha un fisico asciutto e leggero, è uno scalatore puro, è piuttosto burbero e pure brontolone, ha un carattere coriaceo e battagliero. Non molla mai, il ragazzo: è forte ma ha imparato a essere modesto, perché sa bene che la vita di quelli che non nascono campioni è avara di soddisfazioni e qualche volta è pure beffarda. Come nel Giro del ’67, il suo esordio nella corsa rosa a ventidue anni, quando Miro alla tappa delle mitiche tre Cime di Lavaredo era primo a pochi metri dal traguardo «e poi a quattrocento metri dall’arrivo» – disse – «arrivano i campioni: spinte, attaccati alle moto, ero talmente scioccato quando sono arrivato al traguardo che piangevo e ai giornalisti gli davo risposte cattive». Queste furono le parole di Panizza qualche tempo dopo. C’era ancora tanto amaro nella testa e nel cuore, quella tappa fu un triste capitolo di quel Giro d’Italia passato alla storia come “le montagne del disonore”. Una tappa annullata perché i capitani, stremati dalla fatica e dalla tormenta di neve, erano arrivati al traguardo grazie alle spinte di tifosi troppo zelanti. In quella tappa annullata il nome di Panizza non comparirà mai, nessuno ricorderà più quella fuga epica. Patron Torriani, influenzato da Sergio Zavoli, fu categorico: quella tappa non era mai esistita, e la prima vittoria da professionista di Panizza venne così demolita.
UN GREGARIO IN ROSA
Uno dopo l’altro gli anni passano inesorabilmente e Panizza sugli almanacchi continua a non finirci mai, finché si arriva al 1980. Sono passati tredici anni dal suo esordio e Wladimiro non è più il più giovane del gruppo, anzi, è diventato il più anziano. Ma gli anni non pesano sulle gambe del vecchio gregario e a sorpresa il 29 maggio, nella quattordicesima tappa da Foggia a Roccaraso, Miro si ritrova a battagliare per la maglia rosa. L’avversario di Panizza quel giorno non è uno qualunque, bensì un mostro sacro del ciclismo dell’epoca, il francese Bernard Hinault, soprannominato il Tasso per la tenacia e la combattività, ma anche per l’astuzia e l’accortezza con cui sa gestire le corse.
Il bretone disse un giorno: «Prima della partenza conoscevo già Panizza, l’avevo incrociato in diverse competizioni, come la Milano – Sanremo o altre corse a cui partecipava anche lui. Non avrei mai pensato che sarebbe stato il mio principale avversario al Giro d’Italia del 1980». Sulla salita che porta a Roccaraso, Hinault attacca. L’andatura del francese manda fuori giri tutti i pretendenti alla maglia rosa: Saronni, Prim, Moser e Baronchelli… tutti, ma non Panizza. Ligio fino in fondo alla sua storia di gregario, però, Panizza non vuole abbandonare il suo capitano Saronni. Miro chiede a Beppe che cosa fare e Saronni gli risponde: «Se stai bene vai».
Il piccolo scalatore allora la fa la sua corsa e rimane incollato alla ruota di Hinault. I due rimangono appaiati, nessuno riesce a tenere quel passo, è un testa a testa fra l’italiano e il francese e sul traguardo di Roccaraso a spuntarla è Hinault, ma per Miro Panizza c’è il premio atteso da una vita: a trentacinque anni suonati indossa e bagna di lacrime la sua prima maglia rosa. Piangeva sul palco, piangeva nel dopocorsa con De Zan e in albergo, piangeva con tutti. Tredici lunghi anni ci sono voluti, e poi il sogno si è avverato. Il figlio Massimiliano è spaventato quando vede suo padre piangere in televisione e la mamma in lacrime sul divano. Era frastornato il piccolino, del resto l’emozione era enorme.
Nei giorni successivi, poi, il piccolo scalatore varesino si è comportato come un leader vero e gestiva la squadra dalla corsa come non lo avevano mai visto fare a un corridore come lui. Probabilmente vestire la maglia rosa ed essere leader di una squadra a Panizza ha dato una convinzione e una forza che nemmeno lui sapeva di avere. Passa una tappa, ne passa un’altra e un’altra ancora, e Panizza è sempre lì, incollato alla ruota di Hinault, a difendere il suo sogno con il simbolo del primato cucito sulla pelle.
TAPPA DOPO TAPPA…
Nella diciottesima tappa che va da Sirmione a Pecol, la strada finalmente inizia ad arrampicarsi sulle Alpi. Sarà il primo dei tre tapponi dolomitici in programma e Giovanni Battaglin tenta subito la fuga. Panizza e Hinault si lanciano al suo inseguimento. I due salgono fianco a fianco, pedalata su pedalata.
Miro è sempre più determinato: cominciava a convincersi di volerlo vincere sul serio quel Giro e l’illusione si stava facendo speranza e la speranza è un motore formidabile che sembra spingere Panizza sempre più in alto tra quelle montagne, fino a portarlo alla più impensabile delle imprese, ovvero staccare Bernard Hinault.
Ora alla ribalta del Giro c’è un uomo che guadagna simpatie con la sua semplicità, un uomo alle prese con i problemi e le difficoltà della vita vera, specie ora che gli anni cominciano a pesare sulle spalle e il tempo delle corse sta per finire. In quel periodo Miro stava studiando per conseguire il diploma di terza media, perché gli serviva e anche per un fatto di orgoglio personale, e ogni tanto qualche compagno piombava in camera per controllare se stesse studiando, minacciando in caso contrario di riferirlo alla moglie Mariarosa. Insomma, i libri di notte e le salite di giorno.
La salita che i corridori devono affrontare venerdì 5 giugno è leggendaria: il passo dello Stelvio, che con i suoi 48 tornanti e le sue mura di ghiaccio e neve è la cornice più suggestiva per il duello finale tra Panizza e Hinault. Miro sulla parte più dura dello Stelvio ha provato a forzare l’andatura per vedere come stava il francese, ma Hinault stava bene e aveva fatto fare al varesino gran parte del lavoro. Strada facendo, senza accorgersene, il povero scalatore lombardo si era letteralmente spompato, una tattica suicida che il francese gli lascia attuare. Furbo come sempre, Hinault non ha ancora svelato le sue carte e intanto ha mandato in avanscoperta un suo compagno di squadra, Jean René Bernaudeau, per poi lanciare sulle rampe più dure il suo attacco alla maglia rosa. Queste furono le parole di Hinault a proposito di quel giorno: «Quando sono passato all’attacco e l’ho superato, mi sono girato una o due volte per vedere se mi stava seguendo e mi sono reso conto che era in difficoltà. A quel punto ho capito che dovevo attaccare ancora e alla fine lui si è arreso». Bernard Hinault quel giorno si è dimostrato campione due volte: conquistando la maglia rosa e lasciando il successo parziale al compagno Bernaudeau.
UN BRUSCO RISVEGLIO
Il sogno di Panizza è finito e il duro risveglio trasforma il mite corridore, che scaraventa via la borsa e la maglia rosa con la moglie lì vicino, arrivata a Sondrio per vederlo: «Adesso questa maglia te la puoi tenere e lavarci il pavimento», dice arrabbiatissimo. Due giorni più tardi, sulla passerella finale del Giro a Milano, Panizza è già tornato quello di sempre.
De Zan al microfono gli chiederà: «Cos’è cambiato in te in questo mese? Tuo figlio sarà orgoglioso, a scuola verrà promosso con 10 di media!». Panizza risponderà: «Mah, anch’io ho un esame questa settimana, ho l’esame di licenza media, il diploma mi serve per un domani ormai prossimo».
Una settimana da capitano in una vita da gregario, ma una volta sceso di bicicletta Panizza non smetterà di donarsi agli altri, fino alla fine, fino a quel 21 giugno 2002, il giorno in cui Miro si spegne per un’embolia a soli 57 anni. Un piccolo grande uomo dotato una generosità immensa. Una vita dedicata al ciclismo e ai sui capitani, che rispondono al nome di Felice Gimondi, Francesco Moser, Giuseppe Saronni, solo per ricordarne alcuni.
Ma l’ultimo nobile gesto, dopo che la sua anima ha lasciato questa terra, è stato quello di aver donato le sue cornee. Ci piace pensare che quegli occhi che hanno sempre saputo guardare chi gli stava vicino possano ancora brillare e ammirare da lontano le montagne del Giro che lui tanto amava.