Settant’anni da fotografo, due agenzie, innumerevoli amicizie con i campioni di ogni epoca, scoop di ogni ordine e grado ma soprattutto il merito di aver rivoluzionato un mestiere: questo è stato Vito Liverani, inventore del fotogiornalismo sportivo, scomparso nel 2020.
Così diceva della fotografia moderna: «Oggi si fanno centinaia di foto per ogni evento. Io li chiamo “scattini” perché non sono fotografi, scattano e basta. A raffica»..
Un giorno, un delegato della Gazzetta interessato a fare un libro su Coppi in occasione del cinquantenario dalla morte, gli chiese quante foto del Campionissimo avesse in archivio: «Almeno ventimila», fu la risposta. La controparte rimase allibita, sembrava impossibile. Alla fine della conta erano circa diecimila in più. «Perché Coppi era Coppi, eh!». Fu fatto un bel libro fotografico solo dall’archivio dell’Omega Fotocronache. Si chiamava “Chiedi chi era Coppi” e in copertina il campione di Novi era ritratto mentre ammirava dei vasi. A colori. Erano delle foto rarissime, mai viste prima. Vitaliano Liverani, per gli amici Vito, è una leggenda del fotogiornalismo.
È lui a trascorrere un’intera notte in un cespuglio davanti a un albergo sul Lago Maggiore per fotografare due amanti. «L’imbeccata me la dà il mio amico Decio Silla, giornalista de La Notte, la soffiata è sua. Lei mi ha mandato tanti di quegli accidenti che lo so solo io. Mi ha odiato, non mi poteva sopportare». Erano Fausto Coppi e Giulia Occhini i due amanti e quello è stato uno degli scoop più celebri del fondatore di due tra le agenzie fotografiche specializzate in sport più importanti d’Italia: l’Olympia – poi ceduta e diventata Olycom, infine acquisita da LaPresse – e l’Omega Fotocronache, che nei primi anni della digitalizzazione teneva testa ai grandi player come Getty e Associated Press e il cui archivio è stato donato alla Rai.
FACCE DI GOMMA
Classe 1929 da Modigliana, dalle parti di Forlì, Liverani è terzo di otto figli. Inizia a lavorare nel ristorante dei genitori che è poco più di un bimbo ma il suo esordio nella fotografia è in piena pubertà – a 12 anni da Baratelli, in centro a Milano – e continua poco dopo nello stabilimento della Dotti&Bernini. È qui che conosce i segreti degli ingrandimenti, dei fotoritocchi e che inizia ad appassionarsi di camera oscura, una passione che non lo abbandonerà mai, insieme a quella per lo sport, in primis il pugilato. Vito è dotato di una buona castagna e dai diciassette anni in poi combatte in oltre trenta incontri.
La carriera di pugile finisce contro tal Calloni alla terza ripresa: «Ho preso più botte in quei tre minuti che in tutti gli incontri precedenti. Il giorno dopo avevo appuntamento con Magda, la ragazza che sarebbe diventata mia moglie. Siamo in fila al cinema per fare i biglietti e mi guardano tutti, sono pesto ovunque, gibollato persino sulle orecchie. La carnagione chiara mette a nudo le botte che ho preso. Lei mi dice: “Io mi vergogno, non uscirò mai più con te conciato così”. Stai tranquilla, le dico, con la boxe ho chiuso».
Con la fotografia aveva iniziato qualche anno prima con le fototessere, le feste e i matrimoni per la comunità delle case popolari dove viveva in zona Città Studi: qualcosa come 3000 persone nello spazio di un isolato che gli garantiscono una prima rendita. Lui sviluppa e stampa in casa con l’aiuto del fratello Walter, grazie al quale allestisce una camera oscura. È il pugilato a cambiargli la carriera di fotografo: inizia a ritrarre i compagni di palestra, continua con i campioni e gli aspiranti tali al Teatro Principe, sede delle riunioni milanesi, infine visita tutti i ring della città portando con sé due guantoni, dei pantaloncini, finendo per coinvolgere anche chi passa di lì per caso e vuole una sua fotografia in posa da boxeur. Ha una macchinetta 4,5×6, comprata alla Fiera di Senigallia, con un rullino da 9 pose fa 16 immagini e in poco tempo apre il suo primo studio, Foto Liverani, in via Moretto da Brescia. Inizia a vendere qualcosa anche ai giornali e infatti nel 1952 è di passaggio in Gazzetta, in via Galilei, dove si magnifica un servizio de Lo Sport Illustrato a cura di un fotografo svedese. Il soggetto è un pugile con la faccia deformata dopo un pugno. Liverani obbietta: «Non capisco cosa ci sia di bello, io di “facce di gomma” come quelle ne ho a bizzeffe ma nessuno le vuole». «Liverani, cunta no di bal!» (non dire fesserie!), è la risposta. Furioso e orgoglioso, Liverani torna a casa e si presenta nel pomeriggio con una ventina di “facce di gomma” al caporedattore Imbastaro che le mostra subito a Emilio De Martino, il direttore. «Dopo mezz’ora è tornato Imbastaro, mi ha proposto una cifra che a momenti sto male per le stampe e un’esclusiva per tutti i servizi di boxe futuri. Sono tornato a casa e ho regalato il laboratorio a mio fratello. Basta matrimoni e fototessere. Mi sarei dedicato solo al fotogiornalismo».
«A bordo ring c’era da sgomitare. E scattavo in situazione ravvicinata, quando i due pugili erano contro le corde, appena sopra di me che quasi invadevo il ring. Facevo foto forse crudeli ma bellissime. Occorreva intraprendenza. Io l’avevo ed ero prepotente»
Liverani inizia a seguire tutti gli sport che vanno per la maggiore, quindi anche calcio e ciclismo. Con la televisione ancora poco diffusa, le fotografie sono l’unico modo per immaginare lo sport e lui si inventa mille trucchi e stratagemmi per vendere di più o accogliere le richieste dei clienti: La Notte, giornale del pomeriggio, nell’ultima edizione vuole mettere delle immagini della partita di San Siro del pomeriggio. Così lui fa scatti nei primi venti minuti e poi va a stampare. Nel tempo affida a un fattorino il ritiro dei rullini dei fotografi allo stadio, così da avere pronte le stampe prima della fine della partita. Oppure manda gli inviati nei campi della Serie A, costringendoli ad abbandonare lo stadio a metà tempo e tornare in treno a Milano prima della chiusura dei quotidiani: «Se il gol era all’angolino nel secondo tempo, io cercavo un tiro nei primi 45 minuti e poi, con una moneta da 5 o 10 lire in fase di sviluppo, ecco che appariva il pallone! Ma è capitato di far ripetere arrivi di corse di ciclismo pur di avere la foto da mandare ai giornali, ho fatto di tutto pure di vendere una foto».
«Il mio vantaggio era una passione autentica per lo sport, che avevo imparato a conoscere. Me ne intendevo, a differenza di altri, improvvisati. Alcuni sapevano soltanto fare il compitino, fotografavano lo stretto necessario mentre io cercavo immagini che mi aprissero le porte delle redazioni, vuoi di quotidiani, di periodici o più tardi delle televisioni»
A metà anni Cinquanta Liverani apre la sua agenzia, il nome Olympia è su suggerimento di Gianni Brera, suo amico, e l’ispirazione arriva dai Giochi Olimpici di Roma, attesi per il 1960. «Lì per lì sorrido perché Olimpia, con la “i” normale, si chiamava la portinaia di dove abitavamo e a mia moglie l’idea non piaceva». La sede è alla Gazzetta dello Sport, dove Liverani ha in uso alcune stanze, e diventa così il fotografo della rosea, sostituendo Carlo Martini, autore della celeberrima fotografia di Bartali e Coppi che si scambiano la borraccia – anche se è lo stesso Liverani a svelare a Repubblica anni dopo essere “solo” una bottiglia d’acqua e una fotografia abilmente costruita. Oltre al ruolo in Gazzetta, Liverani eredita da Martini anche il suo assistente, Walfrido Chiarini, poi socio dell’Olympia, uno che conosce tutti soprattutto nel calcio e nel ciclismo e ha una faccia tosta pazzesca: «Un esempio? Una volta, me presente, avvicina Gianni Agnelli, che non aveva mai visto di persona, e gli dice: “Avvocato, come va?” come se fossero vecchi amici. Il bello è che Agnelli gli risponde e cominciano a chiacchierare. Walfrido, aria da gagà, vestiti sempre in ordine, ci sa fare».
In quegli anni Liverani è spesso nelle redazioni dei giornali, completo di macchina fotografica. Nessuno aveva mai fatto foto in redazione, in teoria era proibito ma lui se lo poteva permettere. I redattori chiamavano il direttore: «Venga, c’è Liverani per le foto» e i direttori si prestavano perché sapevano che era amico degli sportivi e che potevano grazie a lui venire in redazione. «La prima volta Felice Gimondi, dopo il suo Tour vinto nel 1965, l’ho portato io in Gazzetta», raccontava orgoglioso. Il rapporto con gli atleti è stato sempre l’asso nella manica di Liverani: era amico fraterno di Duilio Loi, molto in confidenza con Benvenuti, per rimanere alla boxe, ma era anche in buoni rapporti con giocatori di calcio e campioni di ciclismo.
Non solo i campioni vogliono farsi fotografare da Liverani, anche la maggior parte dei fotografi vuole lavorare per l’Olympia: Vito paga bene, paga puntuale e, soprattutto, ha dei bravi produttori, una figura professionale ormai estinta. Sono coloro che fanno il giro delle redazioni piazzando il materiale, vuoi singolo vuoi i servizi nei periodici, secondo l’adagio “Chi arriva per primo vende un po’ di foto, chi per secondo ne vende una sola, chi per terzo le mette in archivio”. È proprio l’archivio l’altra grande intuizione di Vito, a cui piaceva ragionare in grande: l’Olympia è la prima agenzia italiana a essere accreditata agli Europei di Basket, alle Olimpiadi, a seguire il Tour de France. «I concorrenti non frequentavano i grandi eventi per gli alti costi e la spesa relativa; io avevo capito che le immagini di cronaca compensavano i costi della trasferta e il resto finiva in archivio e sarebbe venuto buono negli anni. Io andavo a fotografare il pugilato a Roma, all’una di notte ripartivo per Milano, dove arrivavo alle otto di mattina. A quel punto sviluppavo e stampavo, così alle dieci il mio produttore cominciava il giro con le fotografie della sera prima. I concorrenti, ad andar bene, arrivavano a mezzogiorno, non di rado alle due del pomeriggio, quando avevo già piazzato tutte le foto. Ho costretto tutti a ripensare la professione, le sue modalità».
«Dovevi sapere di tecnica, di sviluppo, di stampa, dovevi aver studiato ed esserti applicato. Oggi è una vergogna: la gran parte non ne sa nulla, lascia fare alla macchina, visto che non si sviluppa più e si stampa di rado. Settant’anni fa sarebbero morti tutti di fame»
Omega Fotocronache
L’Olympia, con il finire degli anni Settanta, è senza dubbio l’agenzia più importante e a Liverani arriva sul piatto un’offerta che non può rifiutare. Così cede tutto e, a soli 51 anni, di cui 40 passati a lavorare, inizia una vita fatta di palestra e aperitivo al mattino, scala quaranta o biliardo al bar il pomeriggio e baldoria la sera. Ma non può durare, tempo un anno e riapre un’altra agenzia, l’Omega Fotocronache. Tutti sono felici di rivedere Liverani in circolazione e lui è felice di comprare archivi, dato che tutte le sue fotografie sono rimaste in Olympia. Pochi dipendenti e tanti collaboratori ma soprattutto tante nuove idee.
Vincenzo Torriani lo assolda subito come fotografo del Giro d’Italia anche se poi si concentra sulle grandi tappe di montagna, le corse monumento, lasciando ai collaboratori di seguire per intero le corse a tappe. A questo periodo risale un altro grande scoop che ricorda quello di Coppi e la Dama Bianca, quanto meno per la notorietà del protagonista: «Un giorno mi chiama un mio fotografo da Napoli, mi segnala che un collega ha fotografato Maradona vestito da donna per Carnevale. Le vendo in esclusiva all’Oggi che ci fa la copertina, poi finiscono in tutto il mondo. È stato il più grosso colpo della mia carriera».
Le grandi invenzioni
«Sono uno che ha inventato i fotomontaggi, in Omega ne ho fatti tantissimi, ci sono riviste che li usavano come rubrica, magari su doppia pagina, piacevano moltissimo. Per un certo periodo il Corriere d’Informazione ne pubblicava uno al giorno. Ci voleva inventiva e capacità». Un bel colpo, necessario perché la televisione aveva preso il sopravvento, è stato dagli anni Novanta poter documentare un evento fornendo l’immagine chiave tratta dalla televisione. Perché in molti casi, soprattutto nell’automobilismo, era impossibile riprendere una fase drammatica, un incidente. Così Liverani decide di investire in televisori, parabole e videoregistratori – sostituiti poi da hard disk portatili – per registrare e poter fornire i frame dai fermo immagine. «Poi lo hanno fatto tutti, ma noi di Omega abbiamo inaugurato quella modalità e – non lo nego – abbiamo fatto un sacco di soldi». A seguire, nel 2002, la nascita del sito Internet, con parte dell’archivio digitalizzato. Ora sembra qualcosa di banale ma erano pochi, a livello mondiale, a essere così avanti. D’altra parte Vito Liverani è, insieme ad Associated Press e Reuters, tra i primi a dotarsi di Lifax (un macchinario in grado di spedire le fotografie) per mandare immagini in tutto il mondo. E il primo in Italia a possedere una macchina digitale. Costava 25 milioni di lire e faceva immagini da 4 mega, tra uno scatto e l’altro passavano 15 secondi… Anche sui video per Internet c’è il suo zampino: agli albori dell’informazione online, per problemi sindacali, i giornalisti non possono prendere in mano una telecamera e così, a Sidney 2000, è l’Omega a realizzare i video per Gazzetta.it, il suo cliente storico. La vera forza, oltre all’innovazione e a una strumentazione tecnologica perennemente all’avanguardia, è l’abilità nella trattativa con i giornali: una tenacia che ha permesso a Liverani di strappare contratti vantaggiosi anche quando il mercato del fotogiornalismo era caduto in disgrazia. Amava ripetere in proposito: «Se ti chiamano è perché sanno chi sei. Se io vado da Peck (celeberrima gastronomia in centro città, ndr) non gli chiedo quanto costa, perché so essere il miglior prosciuttino di Milano!».
Lavorando 17 ore al giorno per quasi tutta la vita, Vito soffrirà costantemente di tachicardia parossistica, un problema che sotto stress gli farà perdere conoscenza, o mancare il respiro. Ma al reparto di cardiologia lo sapevano e lo tiravano sempre fuori da guai. «Avrei dovuto morire un sacco di volte per le mie abitudini», raccontava, «ma non è successo e sono arrivato a compiere novant’anni. Mi ritenevano un miracolato». Fu anche operato nel 2011 e a 82 anni il cardiologo lo ha convinto a smettere di lavorare: «È stato come morire. Il 31 dicembre di quell’anno, quando ho chiuso l’Omega, è stata la giornata più sgradevole della mia vita». Diceva sempre che deve essere brutto morire da giovani ma anche da vecchi non è granché: ormai un po’ stufo di avere le giornate vuote senza rincorrere gli eventi, a lui è capitato a 91 anni, il 19 settembre del 2020. A quel punto chissà che pacche sulle spalle con Duilio Loi, Felice Gimondi e Fausto Coppi. E che occhiatacce con la Dama Bianca.