Nell’epoca dei pionieri, prima del Tour e del Giro, altri uomini s’innamorarono della bicicletta e ne adottarono le regole. Non corridori ciclisti, ma viaggiatori, e tra di loro scrittori in bicicletta.
A questa famiglia degli albori, che avrà ampia discendenza nei decenni a seguire, appartenevano Lorenzo Stecchetti, Alfredo Oriani e Alfredo Panzini. Quest’ultimo, figlio della Letteratura del secondo Ottocento e allievo del Carducci all’Università di Bologna, è un insegnante, un professore al Politecnico di Milano. Come viaggiatore, adotta la bicicletta tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento per le sue escursioni. È proprio di lui e di uno dei suoi viaggi che vi vogliamo parlare. Nell’estate del 1902 decide di raggiungere la famiglia, che è in vacanza a Bellaria in Romagna, al termine degli esami. Il resoconto di questo viaggio sarà pubblicato nel 1907 dall’editore Treves all’interno de La Lanterna di Diogene, che sarà anche il primo libro di successo dello scrittore.
«L’undici di luglio, alle ore due del pomeriggio, io varcavo finalmente, dall’alto della mia bicicletta, il vecchio dazio milanese di Porta Romana. La meta del mio viaggio era lontana: una borgata di pescatori sull’Adriatico, dove io ero atteso in una casetta sul mare: questa borgata supponiamo che sia non lungi dall’antico pineto di Cervia e che, per l’aere puro, abbia il nome di Bellaria».
Siamo a Milano, in un caldo pomeriggio di luglio, e l’autore stanco di quella che chiama “la cerimonia ufficiale della vita” monta sulla sua vecchia bicicletta e fugge dalla città Lo stesso Panzini offre un’ampia spiegazione di questa sua fuga:
«V’erano poi certi libri che mi facevano un effetto diverso da quello che fanno agli altri studiosi. Così, per esempio, dall’Orlando Furioso veniva fuori una grande cavalcata; dalla Gerusalemme un pianto di belle donne amorose; dall’Odissea un profumo di grande mare azzurro; dalla Divina Commedia veniva fuori l’alba che vince l’ora mattutina e un gridio di uccelletti […] Ma il più bello era che questi magici libri non mi dicevano mica: “mettiti lì, a far dei commenti!”, ma invece mi dicevano paternamente: “va, cammina, svagati!”».
Non si trova a suo agio in città, solo la campagna e la natura gli danno serenità. In città tutto è compresso, soggiogato. In campagna, invece, tutto si muove, ondeggia, respira. Basta passare una porta per trovarsi subito in un altro mondo. Mentre l’uomo assapora la libertà il professore che è in lui trova in ogni scorcio motivo di riflessione, ed ogni riflessione è condita di citazioni letterarie, greche e latine. In sella il Panzini riacquista il suo ritmo vitale. Appena si mettono in moto le gambe comincia a lavorare anche la fantasia. Si preoccupa che la bicicletta sia ben funzionante:
«Molto più fortunata di me, la bicicletta aveva trovato un meccanico che fermò qualche vite, rinnovò i pneumatici e lubrificò i congegni». Mentre si rammarica per se stesso e la sua forma fisica: «per noi creature di Dio, non esistono pezzi di ricambio. I pneumatici una volta invecchiati, tali rimangono, né il mercante vende olio per lubrificare le ossa indurite. Noi, sventuratamente, abbiamo l’età dei nostri pneumatici, cioè delle nostre arterie, e non c’è laboratorio Dunlop che le rinnovi».
Lo sconforto, però, è di breve durata. Ritrova infatti ben presto il piacere della pedalata:
«Un’altra causa della mia contentezza quando mi accorsi che il pedale rispondeva bene all’impulso, che le case andavano indietro e la verdura della campagna veniva avanti […] Dunque mi congratulai con me stesso di aver conservato in su la soglia dei quarant’anni alcune facoltà illusorie dell’adolescenza, per le quali il mondo appare giovane e ridente […] Ero dunque padrone del moto, e ne gioii come di un’insperata fortuna».
Di questo suo viaggio aveva ipotizzato cinque giorni di periplo, passando per Milano – Lodi – rive del Po – Piacenza (prima tappa); Piacenza – Firenzuola d’Adda – San Donnino – Salsomaggiore – Rubiera (seconda tappa); Rubiera – Stiviere – Modena (terza tappa). Ma a Moderna, la sera a tavola, la svolta. Un commensale gli parla dei paesi dell’Appennino: Paullo, Barigazzo, l’Abetone. Panzini ne rimane affascinato e, seppur titubante, si lascia convincere:
«Dopo un sommario esame della carta del Touring, osservai al mio interlocutore che La Serra è a 800 metri; Paullo è più in basso, ma Barigazzo sale ancora a 1300; Pievepelago discende sino al fiume; però l’Abetone svaria con la sua selva a 1340, e la Lima si nasconde in fondo alla valle. “Crede lei che io riuscirò a fare questa specie di montagne russe?”. “Caspita” mi rispose, “un giovane come lei!”. Ecco: andare da Modena all’Adriatico pigliando le vie di Paullo e dell’Abetone non è la più diretta, e quelli che mi attendevano nella casetta al mare, certo — pensai — ne avranno dispiacere; tuttavia se tralascio questa occasione, chissà quando la potrò riafferrare, e mi vinse la nostalgia di rivedere i grandi monti e le ginestre selvagge. Partii prima dell’alba del dì seguente».
La salita però, per il professore sedentario, si presenta subito ardua e lo costringe a procedere a piedi. La sua è una bicicletta senza rapporti, naturale quindi che trovi delle difficoltà a salire. La stanchezza lo assale:
«Non soltanto io facevo una ben magra figura con la bicicletta a mano; ma una grande stanchezza si impossessò di me dopo qualche chilometro. Mi assalì una specie di nausea, un sudore freddo mi bagnò la fronte, la camicia ventilò gelata su le carni; e invece di seguitare a confortarmi con la bella idea che salire equivale a conquistare una virtù, mi venne il sospetto che potevo conquistare anche una polmonite. Il garretto sopra tutto si stendeva faticosamente».
La calura però si fa torrida e il professore, trovata una fontana, decide di fare un bel bagno ristoratore, sotto l’occhio incredulo di un carrettiere che, inizialmente avverso, lo aiuta:
«Quel carrettiere fu assai destro: col suo aiuto in pochi istanti mi liberai della maglia e di ogni altro indumento e così saltai con trepidanza e ardimento nella vasca. Era stata l’acqua ad attirarmi lì dentro, ed io avevo ubbidito alla sua chiamata, e non me ne pentii. L’acqua si impadronì subito di me. Mi sentii scivolare lungo le pareti viscide della pietra, e un senso di voluttà forte e gelida penetrò nell’interno e nel cervello, e si manifestò con un grido e un riso di gioia. Il carrettiere, che mi vide impallidire domandò: “Com vala?”. Gli risposi naturalmente in greco antico: “ottima è l’acqua!”».
Il sonno che la sera lo coglie a Paullo sarà rigenerante. La mattina dopo, però, è nuovamente preso dalla sconforto e il viaggio in Appennino torna ad essere messo in discussione. C’è poco da fare, può solo continuare. All’Abetone torna alla civiltà:
«Quando giunsi all’Abetone, l’anima si ricondensò e la nube si sciolse e scaricò in miserabile pioggia. All’Abetone trovai il mondo in piena civiltà internazionale: grandi Hotels, luce elettrica, automobili».
Non si ferma molto, il giorno stesso riprende per la Lima. La divagazione per le montagne dell’Appennino comincia a pesare anche sulla coscienza:
«Allora sentii più vivo il desiderio di arrivare presto alla piccola casetta solitaria presso il mare; di vivere fra quei pescatori ancora in istato semi-nativo. E per Bologna presi mio cammino, e di qui per Romagna. Cadeva il quinto giorno da che ero partito da Milano, quando finalmente giunsi a Savignano».
A ben vedere il conto dei giorni di viaggio non torna, ma nell’economia del racconto va considerato come una licenza poetica. Ritrova i luoghi familiari, la luce del sole al tramonto lo bacia e lo inebria, finché:
«Così pensavo e la bicicletta andava, quando mi venne incontro un grido di gioia ed un giovinetto; ed il grido formava quel nome che suona caro più di ogni altro al cuore dell’uomo. E nel modo stesso che il cane fedele corre avanti e indietro al padrone, così quel giovinetto non sapeva se fare festa a me o ritornarsene ad annunziare la mia venuta alla nonna, che attendeva nella casetta: la casetta di cui si scorgeva la finestra a piano terreno, illuminata».
Il viaggio è finito.