Nello stesso anno in cui pubblica Cronaca familiare e Cronache di giovani amanti, Pratolini segue il Giro.
Nella vita dello scrittore quella del cronista sarà una parentesi dedicata quasi unicamente al ciclismo, non tanto come scelta di campo quanto di “mercato”. Il suo viaggio in carovana è però sentito come una fortuna inaspettata, come la vincita di una lotteria. L’essere privilegiato non gli fa comunque scordare gli amici del bar: «volete accompagnarmi? Ne avremo di chiacchiere da fare le lungo le strade! Scoprirò l’Italia, ragazzi, seguendo i Gino, i Fausto, i Vito! Scoprirò la nostra patria, distesa nel suo bel corpo di prati e d’aria, mari, monti, terra e cielo».
Scoprire l’Italia è dunque uno degli obiettivi della ricerca pratoliniana. Attraverso la testimonianza dello sport passa anche la rinascita dell’Italia. Vasco Pratolini, che ha così intimamente raccontato la sua storia e quella del suo mondo di quartiere, si appresta a seguire le gesta dei corridori con l’entusiasmo e l’euforia di chi scopre, al tempo stesso, l’Italia del 1947 ancora ferita tra le macerie.
UN CIRCO A PEDALI
Durante la narrazione delle tappe si distinguono quattro passaggi focali. Il primo lo abbiamo già nel secondo articolo: Sui campi di Marengo batte il Sole, con l’introduzione della metafora tra la carovana del Giro e il Circo Barnum, “Il più grande spettacolo sulla Terra”.
Nani e ballerini, animali esotici e lanciatori di coltelli, lo scrittore cerca abbinamenti e confronti, legami e richiami, per descrivere in modo brillante la corsa. «Intanto il gran Barnum che è il Giro d’Italia dà rappresentazioni di gala una di seguito all’altra. I giornalisti sono gli imbonitori. Fanno le capriole ai margini dello spettacolo: una gara automobilistica torno torno all’area, mentre i vecchi elefanti, gazzelle zoppe o leoni reali, in bicicletta, si esibiscono al centro. È un baraccone che passa e va. Non concede repliche sulla stessa piazza. Ha per staffette cammelli di gran pregio: carrozzoni radiotrasmittenti, tipografie ambulanti che informano sugli ultimi passaggi e offrono lamette per la barba. È il circo di Buffalo Bill. Dispensa volantini e caramelle, fango e imprecazioni. Felicità che durano un attimo e impolverature da dover ricorrere al tintore».
Bartali diventa Buffalo Bill, Coppi un lanciatore di coltelli o un domatore di leoni. I toscani sono osservati con particolare riguardo. Bartali è il ciclista ideale, particolarmente amato. Quando Gino conquista a Prato la Maglia Rosa, Vasco scrive: «È un re pieno di giudizio, progressivo, come può essere un re amato dal suo popolo. Invece di soffocare nel sangue le rivoluzioni, fa in modo di inserirsi nelle file dei ribelli: finisce col capeggiare lui le rivolte e rafforzare il trono». È la fase iniziale, entusiastica, in cui far parte di questo caravanserraglio è il più grande dono che si possa fare ad un appassionato tifoso.
Ben presto però l’idillico movimento creato da Pratolini sbatte contro la realtà: il circo sportivo è il più bello spettacolo del mondo solo per chi vi assiste dall’esterno; chi ci vive dentro scopre, immancabilmente, i difetti. Dopo la settima tappa avviene un evento inatteso: il primo sciopero dei corridori. Nella tappa Perugia – Roma i ciclisti giungono al traguardo in gruppo e a passo d’uomo allo scopo di protestare contro l’organizzazione. Il giorno dopo Pratolini si scaglia contro i corridori: «Che il Giro aveva questo itinerario, questi arrivi, e partenze, lo sapevate fin da Milano, giovanotti, lo sapevate fin dal momento della scrittura». L’autore è richiamato alla realtà, che gli fa comprendere come il ciclismo non sia, come lui credeva, un mondo di generosi eroi, lontano dall’avidità del guadagno ma, viceversa, un riflesso del mondo reale.
FINE DELL’ILLUSIONE
Di fronte a tutto questo lo scrittore sembra mutare pelle, e da epico narratore si trasforma in critico pungente. Quella che inizia con l’articolo Sciopero al Gran Barnum è la seconda fase, quella della delusione: «È difficile che oggi possa farvi il mio solito pezzo di colore. Il colore è questo. […] La mia squallida fantasia, che aveva creata il Gran Barnum, è stata mortificata dalla realtà».
L’immagine del circo rimane presente nelle corrispondenze di Pratolini ma dato il rabbioso dolore, che ha sostituito il gioioso entusiasmo, essa acquisto il significato di squallido baraccone: «Così, anche a Foggia, mercé l’arrivo frazionato, il Circo ha salvato la faccia. Una faccia che si sta facendo grinzosa. Grinzosa e tuttavia feroce e sorridente dopo le volate finali. È l’eccitazione degli spettatori a cambiarle i connotati».
La terza fase ha inizio con l’articolo scritto nel giorno di riposo, dopo la dodicesima tappa, dal titolo Pescara si addice alle riflessioni. Si rivolge agli appassionati, ai tifosi veri, coloro che vivono di “pane e sport”: «Penso a quei giovanotti di città e di paese, ai miei cari amici del fiorentino Bar San Piero e di tutti i bar San Piero d’Italia, durante i ventitré giorni di passione in cui si corre il Giro. Gente che si fa venire il sangue alla testa e il pizzicore alle mani, discutendo», con l’intento di aprire loro gli occhi. Lo scrittore fa ammenda, ammette di aver, involontariamente, contribuito a costruire un’immagine eroica del ciclismo e, uno dopo l’altro, enumera i capi d’accusa: «Il Giro ve l’ho detto per scherzo, adesso ve lo ripeto seriamente, è un gran circo equestre, coi suoi numeri d’attrazione, belve ammaestrate, cavalli danzanti e zoo ambulante. È un’azienda che ha un borderò e degli interessi. In volgare si chiama cassetta. […] Le spese di organizzazione sono tante. d’altra parte il rischio dei capitali ha diritto al suo guadagno».
IL RITORNO DELL’AMORE
Da qui fino alle montagne, dove il giro si deciderà, Pratolini “riscopre” il ciclismo e il suo amore per questo sport sarà sempre più forte e profondo, ma disincantato. Il gruppo di articoli che ruota intorno al resoconto della tappa Pieve di Cadore – Trento ci rende un cronista trasformato. Non ha più bisogno del “totem” Circo Barnum per rappresentare i ciclisti. Ha imparato ad apprezzarli per quello che sono: uomini con i loro pregi ed i loro difetti. In quella tappa, vera espressione di epicità ciclistica, Fausto Coppi realizza una delle sue più gradi imprese: rimane in fuga solitaria per 150 km, scalando i passi Falzarego e Pordoi, e arrivando al traguardo con più di quattro minuti sui diretti inseguitori (Magni e Martini). È questa la quarta e ultima fase di Pratolini al Giro, ed è la più alta, letterariamente, di tutte. Nell’articolo “Alla morte!” gridava Tragella, Pavesi gridava “Alla morte!”, lo scrittore inizia il suo resoconto con queste parole: «Vogliate bene a Gino Bartali, oggi più che mai voi che andate pazzi per lui. Vogliategli bene soprattutto oggi che ha perduto, oggi che è stato sconfitto in campo aperto. Se siete sportivi non ricercate attenuanti, non calcolate la sua caduta, non attaccatevi al pretesto di una foratura o di uno slittamento. Anche Coppi è caduto, anche Coppi ha spezzato una ruota. Amatelo il vostro campione, così come io l’amato e incitato sulle rampe del Falzarego e del Pordoi: con le spalle al tappeto».
In un momento in cui sarebbe facile tratteggiare gli elogi del vincitore, ecco che Pratolini mostra la sua umanità e costruisce questa “lirica dello sconfitto”. Il Bartali qui riassunto è un vecchio campione che «ha annunziato il crepuscolo della sua inimitabile giornata di atleta». Il Vecchio delle Montagne, come lo chiama Pratolini in questo articolo, è tutt’altro che ciclisticamente finito; lo stesso autore scrive: «Buffalo Bill [Bartali] aveva toccato il tappeto. Ma un attimo appena. Già era in piedi lungo la discesa […] il vecchio campione è lontano dal tramonto».
Dell’uomo Bartali il cronista ammira la serenità e la dignità mostrate anche nel momento peggiore. È questa una figura che più si accosta ai protagonisti dei suoi romanzi. È un personaggio letterariamente “potente”, è un uomo solo che lotta senza speranza di riuscire, ma senza tirarsi indietro (come Maciste in Cronache di poveri amanti), è in cerca del sole oltre le barricate (come Valerio ne Il quartiere). Come nelle antiche tragedie, Bartali non sembra essere vinto da avversari umani ma, dal suo stesso destino, dall’inesorabile scorrere del Tempo, dall’usura della Fatica. Il Vecchio delle Montagne tuttavia non si scompone, non si lamenta né impreca: dignitosamente assume su di sé il peso della sorte, della vita, “della lunga carriera”.
UN FIORENTINO AL GIRO D’ITALIA
Fiorentino (nasce nella città del Giglio nel 1913), della parte più popolare della città, quella San Frediano che così intimamente descriverà nelle sue opere iniziali (Cronaca familiare e Cronache di poveri amanti), Vasco Pratolini è considerato uno dei padri del Neorealismo italiano. Scrittore, giornalista, professore, collaboratore di riviste letterarie (Il Bargello e Letteratura), è amico di registi (Luchino Visconti e Michelangelo Antonioni) e uomo della sinistra italiana.
Con il poeta Alfonso Gatto si conoscono fin dai tempi della rivista letteraria fiorentina Campo di Marte (1938), cuore pulsante dell’ermetismo italiano, che hanno fondato insieme ad Enrico Vallecchi. Si ritroveranno inviati al seguito del Giro d’Italia del 1947 per i corrispettivi giornali, il Nuovo Corriere di Romano Bilenchi e L’Unità di Pietro Ingrao. Pratolini non aveva macchina e chiese quindi ospitalità a quella del partito. Seppur malvolentieri, perché geloso della postazione privilegiata accanto all’autista, Gatto acconsentì a far viaggiare sulla vettura dell’Unità l’amico Vasco. Ne nasceranno cronache dense di epica ciclistica. In uno dei prossimi numeri torneremo a parlare di questa significativa esperienza raccontando il punto di vista proprio di Alfonso Gatto.