Alla fine vince sempre chi ne ha di più.
Dopo 250-300 km di corsa, come nelle grandi classiche. O dopo tre settimane, qualche migliaio di km nelle gambe, sole, pioggia e vento sulla pelle, salite e discese, volate e cadute, come alla fine di un Giro o di un Tour. È una questione di resistenza. Resistenza alla fatica, al dolore, alla voglia di scendere di sella e stendersi in un prato; o alla voglia di infilarsi al caldo in un bar lungo la strada, mentre fuori fa un freddo ghiacciato, e nevica come sul monte Bondone al Giro del 1956, o sul passo di Gavia, nel 1988; o alla voglia di tuffarsi in un torrente e abbandonare una torrida tappa pirenaica di metà luglio, con l’asfalto che si scioglie sotto i palmer.
Oppure, alla fine vince chi, più di altri, ha voglia di libertà e non può fare a meno di fuggire. Perché la fuga nel ciclismo è il contrario di quello che in guerra è un atto di codardia. Fuggire in bicicletta è la sfida all’avventura, è il coraggio di chi attacca, di chi scappa dal gruppo al pronti-via. Che scappa e si ritrova in testa alla corsa, come Fausto Coppi nella Milano-Sanremo del 19 marzo del 1946, quando partì a Binasco insieme a pochi altri temerari, che seminò uno alla volta lungo il percorso, per rimanere da solo sul passo del Turchino, quando mancavano ancora 151 km per arrivare sul traguardo di via Roma. Ce la fece e quel traguardo lo tagliò per primo con quasi un quarto d’ora di vantaggio sul secondo. Tanto che il radiocronista, non sapendo più come intrattenere l’attesa degli ascoltatori per tutto quel tempo infinito, mandò in onda della musica da ballo.
Era il 1946 e forse a spingere in fuga il Campionissimo – che peraltro ancora non si chiamava così – era una gran voglia di libertà, dopo gli anni della guerra e della prigionia, della miseria e della distruzione. Era la stessa voglia di tanti altri italiani, che dalle povere macerie di vite spezzate e umiliate ripresero a “pedalare” e ricostruirono l’Italia: strade, città, lavoro, amori e passioni. Tra le altre, la passione per la bicicletta e il ciclismo. Quell’Italia, benché ferita, non poteva aspettare troppo a lungo: voleva rivedere per le strade correre i propri beniamini del pedale. Quello del 1946 fu chiamato il “Giro della Rinascita”, e si disputò su strade ancora massacrate, ponti provvisori, paesaggi di rovine, densi nuvoloni di polvere – solo 2500 dei 3350 km di strada erano asfaltati – attraverso la penisola già dal 15 giugno al 7 luglio del 1946. Una voglia di fuga, una voglia di libertà che nasceva dalla Resistenza.
A molti di quei corridori correre un Giro, anche in quelle precarie condizioni, sembrò una passeggiata. Avevano infatti in gran parte provato che cosa volevano dire gli stenti, le sofferenze e la lotta per la sopravvivenza durante gli anni della guerra. Mandati al fronte, fatti prigionieri, alcuni saliti in collina come partigiani, avevano conosciuto la paura di morire: che cosa vuoi che potesse essere per loro pedalare 3350 km su e giù per un’Italia che voleva vedere i colori delle loro maglie per dimenticare il nero di una dittatura e di mille lutti?
Per molti, in quegli anni, la bicicletta era stata la salvezza. Tante azioni partigiane si svolgevano grazie ai veloci e agili spostamenti in sella, nella notte delle città occupate, o lungo le strade di campagna della pianura.
Sergio Giuntini, in “Biciclette partigiane”, racconta storie di ciclismo e resistenza. Dalle leggendarie le imprese del gappista Visone, nome di battaglia di Giovanni Pesce, comandante del 3° battaglione delle Brigate Garibaldi, alle azioni collettive di gruppi di resistenti a pedali nel Varesotto o nella campagna mantovana; dalla diretta militanza partigiana di nomi noti del ciclismo nazionale (come Alfredo Martini o Luciano Pezzi) alle decisive azioni di fiancheggiamento di altri campioni (come Vito Ortelli o Toni Bevilacqua); dai sopravvissuti allo sterminio dei lager (Geremia Della Putta ed Ennio Odino) al ruolo svolto nella lotta per la Liberazione da future firme del giornalismo sportivo, come Gianni Brera e Attilio Camoriano.
Ma a portare Resistenza e Libertà in sella a una bicicletta, furono soprattutto le centinaia di donne e ragazze che furono staffette partigiane e svolsero un fondamentale ruolo di collegamento e informazione. Alle cicliste partigiane Giuntini dedica un capitolo e, a parte, delinea il ritratto di Augusta Fornasari. A nome di tutte, vogliamo ricordare qui anche Gina Galeotti Bianchi, nome di battaglia Lia, che perse la vita a ventidue anni falciata da una mitragliatrice nazista, mentre pedalava per le strade del quartiere di Niguarda, a Milano, per portare ai compagni l’ordine di insurrezione. Era il 25 aprile del 1945: Lia quel giorno era felice perché sapeva che la guerra sarebbe finalmente finita e perché era certa il figlio che portava in grembo sarebbe nato «in un paese senza fascisti».I