Il ciclismo eroico: la dimensione di uno sport votato e caratterizzato interamente dalla fatica allo stremo delle forze, al cercare di superare i propri limiti fisici, che fin dalle sue origini veniva interpretato da atleti rudi, possenti, instancabili, infaticabili.
Uomini costretti a percorrere distanze infinite e disumane che sfioravano i 400 chilometri, anche di notte, su strade disastrate.
Gli atleti venivano chiamati “i forzati della strada”: resistere, resistere e sempre resistere. E fu così che allora, per poter resistere un po’ di più, qualcuno pensò di aiutarsi con delle “sostanze”, trovando in questo modo la forza di arrivare alla fine – magari vincendo – di quelle competizioni più simili a delle battaglie che a corse ciclistiche.
La scorciatoia e l’aiutino finalizzato a migliorare la prestazione sono sempre stati una tentazione endemica, una sorta di pensiero cattivo, insito nell’uomo, anche se tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il libero arbitrio.
Se volessimo risalire alle origini di certe strane pratiche, si potrebbe arrivare alla prima metà del diciottesimo secolo, quando alcuni esploratori raccontarono di paio di tribù dell’Africa sud orientale (i Sotho e i Thonga, indigeni di una sperduta regione del Mozambico). Questi signori utilizzavano una pappa densa, su base alcolica, per resistere alle loro massacranti cerimonie religiose, ricche di balli e canti a ritmo ininterrotto, giorno e notte senza tregua. Era una questione di durata, una specie di gara a eliminazione dove il giovanotto che crollava per ultimo avrebbe avuto in sposa la ragazza più bella della tribù. Questo intruglio usato per poter resistere a tanta fatica, nel dialetto thonga veniva chiamato chiamato “dop”.
Le cose furono poi tristemente destinate a cambiare, anche piuttosto in fretta, poiché, quei famosi esploratori non erano lì per caso ma stavano cercando uomini e donne da utilizzare come schiavi da esportare a forza nel Nuovo Mondo, in America. Fu così che quei poveri ragazzi vennero costretti a resistere alla fatica per motivi ben diversi da quelli di prima: da lì in poi avrebbero dovuto lavorare nei campi di cotone, ore e ore sotto al Sole. Crollare stremati non era concesso, altrimenti sarebbero state frustate, privazioni e stridor di denti. Con il passare del tempo, allora, il termine “dop” entrò a far parte dello slang americano, diventando “dope”, anche se in quel caso stava per lo più a significare l’uso di semi di stramonio mischiato a tabacco, un mix che aveva il potere di non fare sentire la fatica e la fame.
NO DOPE NO HOPE
E nel ciclismo, quando quando iniziò la storia degli “aiutini”? Dalle primissime gare, tanto che qualcuno sostiene provocatoriamente che lo sport e il doping abbiano la stessa data di nascita, soprattutto nel ciclismo dove la resistenza fisica è sempre stata una priorità. Le prime pratiche empiriche non erano altro che tentativi di reintegrare le faticacce degli stakanovisti del pedale, che gareggiavano per l’appunto giorno e notte in sella a mezzi di venti chili per 12/14 ore in un periodo storico dove a volte anche una bistecca era considerata un privilegio.
“No dope no hope” si diceva già a fine ‘800, quando cominciava a prendere piede l’agonismo, quando aumentavano a vista d’occhio le gare ciclistiche e di conseguenza anche i premi in denaro. Mario Cionfoli e Carlo Delfino nel loro libro “I forzati della strada hanno fame” raccontano di una bevanda chiamata American Coffee, un intruglio di derivazione oltreoceanica a base di estratto di cola, stricnina e arsenico che avrebbe trasformato un cavallo da tiro in una gazzella. Beppe Conti, invece, narra nel suo libro “Cento storie del giro” di una confessione fatta da Clemente Canepari al già citato dottor Carlo Delfino, a proposito di alcuni pistard dei primi del Novecento (compresi lui e Rossignoli), che bevevano sangue di bue appena macellato. Un antesignano della futura eritopoietina? Difficile da dire! Sta di fatto che era comunque un metodo per combattere l’anemia dell’atleta, che tanto indeboliva coloro che percorrevano lunghe distanze per tanto tempo.
Canepari partecipò a undici edizioni del Giro d’Italia, cominciando proprio da quella del 1909 e terminando la carriera nel 1927. Sosteneva che i pistard fossero i più esperti in fatto di tecniche dopanti. Le sostanze più utilizzate erano gli estratti di coca, oppure bevande a base di solfato di stricnina, quando non addirittura microiniezioni di canfora direttamente nei muscoli.
Già in una sei giorni ciclistica del 1879 i corridori usarono caffeina, zucchero disciolto in etere e altre bevande a base di alcool e di nitroglicerina, sulla base della sua attività coronarodilatatrice e nella supposizione che aumentasse la portata cardiaca. Nel 1896, viene raccontato il primo decesso dovuto a sostanze dopanti nella storia dello sport. Durante una Bordeaux-Parigi, di 600 chilometri, il gallese Arthur Linton ricevette dal suo allenatore aveva un’enorme quantità di stricnina: vinse la massacrante competizione ma dopo alcuni giorni di delirio morì per arresto cardiaco.
LA BOMBA!
Nel Secondo Dopoguerra, si diffusero a dismisura le amfetamine – le cosidette “bombe” – ma allora non veniva considerata una pratica eticamente scorretta: in molti ricorderanno quella scenetta di Coppi e Bartali, al Musichiere, che cantavano insieme ironizzando tra loro su certe strane pratiche.
Ebbene sì, la bomba non faceva sentire la fatica, la bomba ti teneva sveglio, la bomba era un paio di gambe di riserva, sosteneva scherzando Fausto Coppi. In realtà il senso di fatica e il dolore causato dallo sforzo è il chiaro ed inequivocabile segnale che ci si deve fermare o quantomeno rallentare. Usando l’amfetamina, invece, si ottiene un effetto analogo al disattivare la spia della riserva dal cruscotto dell’auto. Solo che il quel caso si fermerebbe solo il motore, mentre in quello di un atleta, finita la benzina, il cuore potrebbe arrestarsi per sempre.
L’abuso di queste sostanze ha causato nella diverse tragedie. Certi fatti, con il tempo, incominciavano a fare il giro del mondo, grazie anche ai nuovi mezzi di comunicazione e alla televisione, rivelando una realtà rimasta in qualche modo sommersa fino ad allora. Nel 1960, il ciclista danese Knud Jensen ebbe un collasso e morì ai Giochi olimpici di Roma durante la prova a squadre di 175 chilometri, in seguito all’ingestione di amfetamine e di acido nicotinico (vedasi box qui sopra). Anche due compagni di squadra di Jensen, che avevano assunto la stessa miscela, ebbero un collasso, e furono poi ricoverati in ospedale, (da allora il C.I.O. cominciò ad introdurre i primi controlli antidoping alle Olimpiadi).
DA SIMPSON A MERCKX
Il caso più drammatico, però, accadde nel 1967, quando tutto il mondo vide morire in diretta Tom Simpson. Era il 13 luglio, e quella tredicesima tappa che partiva da Marsiglia e arrivava a Carpetras aveva nel suo ventre un gigante da superare: il terribile Mont Ventoux. Tommy era un po’ in ritardo in classifica ma con un distacco recuperabile. Il giorno prima, però, aveva bevuto una Coca Cola ghiacciata in corsa, rimanendo vittima di un attacco di colite tanto da disidratarsi. Per salvarsi, il giorno dopo, Tommy avrebbe dovuto arrivare con i primi, puntando sul fatto che in quello successivo avrebbe avuto una tappa favorevole. Alla partenza della corsa il caldo era insopportabile e lui era ancora debilitato. Già dalle prime rampe aveva una sete cattiva. Un gregario afferrò una bottiglia da uno spettatore e la passò a Simpson. Lui bevve in un fiato ma non era acqua: era cognac, ne bevve tre sorsi.
Di li a poco cominciò a zigzagare. Una scena tremenda, tutto il mondo stava guardando in diretta quei momenti tragici. I tifosi lo sorressero, lo spinsero, lui ansimava ma voleva andare avanti a tutti i costi. Poi alzò gli occhi al cielo ed esalò il suo ultimo respiro. Soccorsi immediati, respirazione bocca a bocca, elicottero. Ma è tutto troppo tardi. Nelle tasche del corridore britannico furono trovati due blister, uno di Tonedron e uno di Stenamina. L’autopsia confermerà poi che la causa della morte fu un arresto cardiaco causato da amfetamine. Da quel giorno, i controlli antidoping divennero la regola, nel ciclismo. “Ci vollero i morti per far capire ai vivi” dirà la stampa di allora.
Altro episodio clamoroso si consumò la mattina del 2 giugno 1969, al Giro d’Italia. Eddy Merckx, saldamente in maglia rosa, viene fermato e squalificato per positività alla fencamfamina, un blando stimolante contenuto nel Reactivan, un farmaco da banco in libera vendita che francamente il grande Eddy non avrebbe nemmeno avuto il bisogno di assumere. La tappa era facile e la Maglia Rosa era saldamente in mano al belga. Sergio Zavoli fiuta lo scoop e corre in camera di Merckx all’hotel Excelsior di Albisola che al microfono, piangendo dirà: «Non è vero. Ditemi che non vero. Ma credete che sia matto?».
La vicenda scuote l’opinione pubblica e fa il giro del mondo. Il Belgio grida al complotto. Merckx dovette fare le valigie e tornarsene a casa con un mese di squalifica. Il Tour de France sarebbe iniziato 26 giorni dopo ma alla fine, dopo ricorsi e denunce verso ignoti per contaminazione alimentare, fu riconosciuta al belga la buona fede e poté così parteciparvi. Lo stravinse alla grande, quel Tour, il Cannibale, pretendendo di essere controllato tutti i giorni così da dimostrare al mondo che lui era pulito.
Quello di Eddy Merckx fu il primo grande scandalo mediatico riguardante il doping nel ciclismo, ma di scandali ne seguirono a bizzeffe con il passare del tempo. Negli Anni ’80 e ’90, poi, il fenomeno assumerà una piega davvero vergognosa che le cronache hanno raccontato. Ma qui ci si addentra in un ciclismo più vicino a quello contemporaneo: noi ci fermiamo qui.
BOX
LA TRAGEDIA DI JENSEN
Era il 26 agosto 1960 e la temperatura si aggirava intorno ai quaranta gradi: un colpo di calore, pensarono tutti quando Knud Enemark Jensen, classe 1936, iniziò a stare male, a circa venti chilometri dal traguardo della 100 km a squadre delle Olimpiadi di Roma. I compagni cercarono di sorreggerlo per aiutarlo ad arrivare fino in fondo, per ben dieci chilometri. Rimasto solo, cadde – apparentemente a causa di una insolazione – fratturandosi il cranio: così riporta l’autopsia, che non fa però parola delle sostanze dopanti trovate nel corpo del giovanissimo ciclista. La sua morte spinse il Comitato Olimpico a istituire una commissione medica apposita in occasione delle Olimpiadi invernali del 1968 a Grenoble e ai Giochi estivi di Città del Messico, nello stesso anno.