Il 21 marzo 2020 se n’è andato Gianni Mura.
Avrebbe compiuto 75 anni il prossimo 9 ottobre. Da 55 raccontava il ciclismo e lo faceva in modo che non si poteva confonderlo con nessun altro. Lo raccontava da quella primavera del 1965 quando, entrato da pochi mesi come praticante alla “Gazzetta” fu dato “in prestito” al ciclismo dal capo della redazione del calcio, Emilio Violanti. Un mese prima che partisse il Giro, gli dissero che avrebbe dovuto prendere il posto di Nino Rota, che a marzo alla Milano-Sanremo era caduto dalla moto e l’avevano dovuto operare alla testa.
Il giovane Mura, non ancora ventenne e ancora studente di Lettere, si preparò come a un esame: nelle settimane che restavano si chiuse in biblioteca a leggere i grandi cronisti del passato. La Coppa Bernocchi, il 15 aprile, fu il battesimo del fuoco. Quel giorno si presentò col taccuino a Guido Carlesi, che era tra i favoriti ma era stato battuto in volata da Durante, Dancelli e Cribiori. Carlesi lo scambiò per un ragazzino in caccia di autografi e lo mandò affanculo. Rimise le cose a posto Ezio Graziani, autista della “Gazzetta”, una specie di sacripante temuto da molti corridori.
Da quel giorno, Mura, come scrisse, diventò “uno del Giro”. Violanti disse al direttore Zanetti: «Questo Mura non sembra un coglione. Proviamo a buttarlo».
Come un romanziere
Dopo l’esordio del 1965, Mura continuò a seguire Giri e Tour, per “innamorarsi” definitivamente della Grande Boucle, che racconterà ininterrottamente per “Repubblica” dal 1991 fino allo scorso anno, il 2019, costruendo, luglio dopo luglio, per quasi un trentennio una specie di romanzo stendhaliano di ritratti e paesaggi, di splendori e miserie del grande ciclismo. Ha cantato le gesta degli eroi del pedale, quelli belli di fama e di sventura come Tommy Simpson, Luis Ocaña e Marco Pantani, quelli tirannici e poco amati come Jacques Anquetil e Lance Armstrong, quelli amletici come Gianni Bugno e quelli sovversivi come Claudio Chiappucci e, da ultimo, Romain Bardet che si è sottratto alla dittatura degli auricolari e dei ciclo-computer che telecomandano i corridori, e per questo era diventato per Mura un simbolo di una nuova possibile libertà nel ciclismo contemporaneo.
Qui vogliamo però rendere omaggio ai “corridori del giovane Mura”, quelli che incontrò e raccontò a inizio carriera, e che non entrarono mai nell’Olimpo dei campioni conclamati e celebrati, o se ci entrarono restarono, e restano, nella memoria collettiva degli appassionati di ciclismo, innanzitutto come uomini e non supereroi, anche grazie a quei ritratti che il giovane cronista della “Gazzetta” ci ha lasciato.
Colori, tacchini e il teatro di Zandegù
Giro 1966, tappa Diano Marina-Genova. Vince Severino Andreoli, in maglia Vittadello, prima e unica vittoria in carriera da professionista (nel 1964 da dilettante, nella squadra della 100 km, era stato però argento alle Olimpiadi di Tokyo e oro ai Mondiali di Albertville) del veronese classe 1941. Questo il ritratto in tre righe: «Aperta faccia da contadino, Andreoli crede ancora nelle cose semplici, manifestando invece una specie di incantata disapprovazione di fronte a quelle meno semplici, che a volte sanno anche di bruciato».
Non solo ritratti. In una tappa come quella, anche se è il 20 maggio e c’è il sole in Riviera, il mare non c’è: «Non s’è fermato nessuno, i corridori il mare lo sanno a memoria. Il mare rende buffi i corridori che sembrano affetti da strane malattie epidermiche, neri sul volto e sul collo, e da sopra il ginocchio alle caviglie spaventosamente pallidi per il resto del corpo. È buono il mare solo nel tardo inverno, quando anche i sassi sembrano conservare il ricordo dell’estate precedente e il presagio di quella che verrà. Adesso non è buono né cattivo. Non c’è, semplicemente».
I colori dei ciclisti non gli sfuggono. Sempre al Giro del 1966, Antonio Bailetti della Bianchi, si è impegnato talmente a fondo che «era di un rosso violetto in volto e sul collo. Quando Bailetti è sotto sforzo si congestiona e assume il colore dei tacchinoni prenatalizi».
Nella tappa che arriva a Viareggio, prende la scena Dino Zandegù. Prima implora, anzi intima a Jacques Anquetil che si è messo lui e tutta la sua squadra a tirare in testa al gruppo «trenate da togliere il respiro». Mura traveste Zandegù da attore goldoniano, lo fa accostare al grande Jacques e gli fa dire: «Chi te lo fa fare, tu che non sei un disgraziato come noi, che hai un mucchio di soldi? Tu che sei ricco e intelligente, perché non smetti? Che gusto ci trovi a continuare? Che gusto ci trovi a continuare? Senti, per piacere, smettila di andare a 50 all’ora, ritirati nel tuo bel castello di campagna. Così si muore. E io verrò a farti da autista, da maggiordomo, da giardiniere, da cuoco, da pompiere, da idraulico». Con Zandegù in gruppo qualcosa da raccontare si trovava sempre. È uno che non si tira mai indietro quando c’è da far teatro. «Spesso s’imbatte in parole che suonano bene, e le ripete più volte arrotondandole con amore. “Adamantino, sì, è adamantino, ciò». E poi sorpreso: «Io, io ho detto adamantino? Bravo Dino».
Libri, orologi e girasoli surrealisti
Tour de France, 1968. «Zilioli ha la mania della musica, prima di fare il ciclista era corista alla Rai di Torino, una buona voce tenorile. Alle prime trasferte in Francia, girava munito di una lista di dischi introvabili in Italia. Lui accetta questa curiosità nei suoi confronti come una garbata scocciatura, solo ogni tanto prima di rispondere sbatte gli occhi come un uccello notturno sorpreso dalla luce. Mite eppure complesso. Fragile? O non piuttosto profondo? L’angoscia lo affascina. Non ha bisogno di conoscerla perché ce l’ha già dentro, ogni tanto ingigantisce e sono gli incubi, altrimenti se ne sta buona, e resta l’intelligenza. Semmai, vuole conoscere le angosce degli altri. Così legge Il pozzo e il pendolo e l’atroce Metamorfosi kafkiana, poi basta perché il libro glielo tolgono». Il 1° luglio 1968 il fiammingo Georges Vandeneberghe veste a sorpresa la maglia gialla: «Vederlo in giallo è una consolazione. In una giornata da prendere con le pinze e buttare nel fuoco (sveglia alle cinque di mattina e alle nove di sera ancora a lavorare), una giornata di vento e nel pomeriggio anche di pioggia, a Jojo il buono, il mite, con degli occhi azzurri e ingenui che quasi rasentano la tonteria, è toccato il premio sognato, mai confessato. Fiorisce sul podio come un surrealista girasole il sorriso di Jojo, anni ventisette, ma grosso, calvo e semisdentato, e il Tour è davvero una corsa buona, se offre di queste gioie, oasi tranquilla nel giorno più lungo».
A Saint-Gaudens Mura fa il ritratto dello scalatore spagnolo Julio Jiménez: «Julio non pensò ad altro che alla bicicletta, appena fu in età di distinguere un pignone a un’albicocca, un manubrio da un attaccapanni. […] Jiménez è un tipetto senza età apparente, faccia mistica, capelli radi. Potrebbe essere un torero, un poeta, un violinista. Ha una voce acuta, gambette secche e scure come stoppie; ha raccolto l’eredità del grande Federico [Bahamontes], è un idolo e un esempio per i giovani. A parte una parentesi di circa due anni, spesi con entusiasmo moderato in una bottega di orologiai appartenente a suo cognato Angel, Jímenez, ha vissuto per la bicicletta. […] Anche adesso ricorda benissimo i travagli di quei giorni, quando l’alternativa era orologiaio o ciclista, e ricorda la vitalità della bisnonna Francisca, che a novant’anni suonati andava a far erba per i conigli su e giù per i campi. A Julio piacevano i campi e le strade e il verde degli alberi, nella bottega di orologiaio cercò invano di adattarsi alla vita cosiddetta normale, senza riuscirci».
È l’estate del 1968, Gianni Mura non ha ancora 23 anni ma già gli vengono cose così: «Un ciclista è un impasto indecifrabile di muscoli e di sogni, e a volte i muscoli spingono i sogni, a volte accade il contrario».Un sentito grazie a Emilio Violanti che ci aveva visto giusto.