Roland Barthes, in Miti d’oggi, individua la dimensione epica del ciclismo, e del Tour in particolare, nell’onomastica dei corridori che, come eroi dell’epopea popolare, vengono ribattezzati con soprannomi.
La storia del ciclismo è dunque piena di questa onomaturgia, della rinominazione di uomini a pedali che assumono così le sembianze di cavalieri, o si trasfigurano in altre forme: animali, preferibilmente, ma anche caratteri fatti in carne e ossa, oggetti o strumenti inanimati che prendono cuore e dinamismo, o trasposizioni letterarie.
Il bestiario è quello più frequentato. L’Airone è il Campionissimo, così impareggiabilmente elegante in sella quando impacciato e goffo a piedi, come un airone zampettante incerto che poi s’innalza leggero e aerodinamico in volo. Il minuscolo scaAlatore iberico Vicente Trueba, in lotta con Bartali prima della Seconda Guerra Mondiale, non poteva che essere la Pulce dei Pirenei; il suo successore spagnolo, altro formidabile corridore da salita, Federico Martin Bahamontes – che già nel secondo cognome prometteva di spianare (bahar) montagne – era nobilitato da una ben altra similitudine alata: l’Aquila di Toledo. Gastone Nencini, indomito e avventuroso discesista, era il Leone del Mugello. Si vede che il riferimento al re della foresta ben si addice ai campioni toscani, se qualche anno prima Magni si era guadagnato, con la triplice e consecutiva vittoria sui muri fiamminghi, l’epiteto di Leone delle Fiandre, e anni dopo, Mario Cipollini, divenne lui pure un leone, anzi un Re Leone, sebbene di disneyana memoria. In discesa volava come un rapace in picchiata Paolo Savoldelli, e per tutti fu presto il Falco. Per le lunghissime gambe, Roger Pingeon fu il Trampoliere. Pallido e spennato, come un Pollo (ahimè di batteria), fu la breve stagione di Michael Rasmussen. Agilità, rapidità, velocità si trovano nelle movenze di un Grillo come Paolo Bettini e di un Gatto come Felix Cardenas. Più per il suono del cognome, che per il verso dell’ortoptero, era Cri-Cri Claude Criquelion. Astuto e accorto nella pancia del gruppo, come nella sua tana, era Le Blaireau, ovvero Il Tasso Bernard Hinault. Fernando Escartin era El Cangrejo, il granchio. André Greipel, per via di Grape-Ape e della sua formidabile stazza, fu presto il Gorilla.
Per lasciare la zoologia, ed entrare nello spirito, o nel carattere, si sprecano i casi demoniaci: il Diavolo Rosso, Giovanni Gerbi, per colpa di un prete che lo vide sfrecciare in mezzo a una processione vestito di rosso; e il Diablo, Claudio Chiappucci, più elettrico diavoletto che inquietante mefistofelico. Per affinità parentali Aldo Ronconi, che aveva un fratello sacerdote, era, in gruppo, il Parroco; mentre Julio Jimenez era il Sacrestano. Quasi santificato fu anche Charly Gaul: per la sua eterea vicinanza alle vette fu per tutti l’Angelo della Montagna. E quando si preferiva sottolineare lo spirito, invece del corpo, Bartali da l’Uomo di Ferro diventava Gino il Pio, per l’esibita devozione a Santa Teresa di Lisieux e l’immancabile distintivo dell’Azione Cattolica. Se Francesco Moser, sbrigativo regolatore di questioni in mezzo al gruppo, era lo Sceriffo, l’occhialuto e riflessivo Laurent Fignon era il Professore. Il gusto dell’avventura e dell’imprevisto investì Marco Pantani, insieme all’inconfondibile bandana, del soprannome di Pirata. Mentre per sottolineare l’eccellenza di rango, si sprecano i blasoni nobiliari: l’Imperatore di Herentals Rik Van Looy; il Principe Navarro Miguel Indurain, il Duca di Montemurlo Aldo Bini, il Duca di Benidorm – titolo conquistato al Mondiale spagnolo che valse a Bugno il secondo titolo iridato – al prezioso gregario Giancarlo Perini.
Per altri era un’attribuzione professionale: Adriano Durante era il Fabbro, Ottavio Bottecchia il Muratore, Louison Bobet il Panettiere, Ezio Cecchi lo Scopino di Monsummano, Alfredo Binda il Trombettiere di Cittiglio (anche se nella tromba ci soffiava per diletto nella banda del paese). Non lo faceva neanche lui di mestiere, ma il vizio di fare domande a destra e manca nel gruppo, valse a Marco Saligari il nomignolo di Commissario, che si porta ancora dietro adesso in qualità di commentatore.
Altri ancora erano battezzati da una caratteristica fisica: François Faber era il Gigante, Jean Robic Testa di vetro, per via dei ripetuti traumi cranici da caduta; Franco Bitossi Cuore Matto per colpa delle aritmie che lo costringevano a sostare, o rallentare; il vecchio Felice Gimondi, segnato nel volto come un capo sioux, era diventato, grazie a Brera, signore dell’onomaturgia sportiva, Nuvola Rossa; una vaga allure zingaresca aveva fatto di Roger De Vlaeminck il Gitano di Eeklo. Scuro e sottile come un sigaro era Joachim Rodriguez e per tutti fu Purito.
Facile paragonare a chi correva forte come un mezzo ferroviario i soprannomi di Locomotiva umana a Learco Guerra, l’Elettrotreno di Forlì a Ercole Baldini, la Locomotiva di Berna a Fabian Cancellara. Ci sono stati anche fenomeni meteorologici: il Ciclone Guido Bontempi e il Tornado Tom Boonen. O a un proiettile sparato fuori dal gruppo: Cannonball per Mark Cavendish.
Ma il più implacabile e disumano soprannome resta quello di Eddy Merckx: il Cannibale.