Sarà, come per i vini, per una questione di terroir se la provincia di Bergamo, nella storia del ciclismo nazionale, ha dato più campioni di tutti. Basta scorrere l’albo d’oro del Giro: dopo il grande Felice da Sedrina, per ben tre volte trionfatore nel 1967, nel 1969 e nel 1973, ci sono stati altri due vincitori della Corsa Rosa, entrambi protagonisti di una doppietta: Ivan Gotti da San Pellegrino Terme (1997 e 1999) e Paolo Savoldelli da Rovetta (2002 e 2005). Senza contare poi quelli che, pur non figurando nella lista dei vincitori, hanno davvero scritto la storia del ciclismo nazionale dell’ultimo mezzo secolo: da Gibì Baronchelli, nato a Ceresara, nel Mantovano, ma di fatto da una vita bergamasco di pianura, ad Arzago d’Adda; a Beppe Guerini, detto Türbo, da Vertova, due tappe al Tour (una delle quali niente meno che l’Alpe d’Huez) e una al Giro; da Claudio Corti, campione mondiale dei dilettanti nel 1977 e poi direttore sportivo; a Marco Pinotti, da Osio Sotto, detto l’Ingegnere, sei volte campione italiano a cronometro. Ma a noi interessa qui andare a vedere chi c’era prima di Gimondi a tracciare la strada dei grandi successi in bicicletta.
«Quando, intorno ai dieci anni, ho cominciato ad appassionarmi al ciclismo, al mio paese, così come in tutta Italia, i nomi intorno a cui ruotava l’interesse della gente erano due: Coppi e Bartali. Su di loro, nelle sere d’estate, dopo le tappe del Giro e del Tour, sulla piazza di Sedrina si scontravano verbalmente quelli più grandi. Ogni corsa era buona per alimentare discussioni a non finire: da una parte i coppiani, dall’altra i bartaliani, della cui schiera faceva parte mio zio Giulio, mentre mio fratello più grande, Pinuccio,
era coppiano. Ogni tanto qualcuno, tra i meno giovani, tirava fuori il nome di Pesenti, che a me non diceva niente a quell’epoca. Pesenti, dicevano gli esperti sedrinesi, aveva corso vent’anni prima ed era stato il primo bergamasco a vincere il Giro d’Italia, nel 1932. E poi era di Zogno, paese confinante col mio».
Così scrive proprio Felice Gimondi nella prefazione al bellissimo libro – Antonio Pesenti. Una vita da ciclista (1908-1968), Bolis Edizioni, 2018, 144 pp. 14 euro, che consigliamo caldamente a tutti gli appassionati di “ciclismo eroico” – che Ildo Serantoni, decano dei giornalisti sportivi bergamaschi, ha dedicato ad Antonio Pesenti che, nel 1932, arrivò primo al Giro d’Italia, e che a buon diritto può essere considerato il capostipite della illustre “dinastia” di campioni orobici del pedale.
Ricorda Serantoni quando, ragazzino venne accompagnato da suo padre, nei primi anni Cinquanta, ad acquistare la sua prima bicicletta nel negozio che Antonio Pesenti dopo aver appeso la bicicletta da corsa al chiodo aveva aperto una quindicina di anni prima a Bergamo, in via Torquato Tasso: «“Questo signore qui ha vinto un Giro d’Italia”, mi spiegò indicandomi un ometto, piccolo di statura, col grembiule nero, che era sbucato dal retrobottega nel quale stava aggiustando qualche pezzo di bicicletta. Io, che cominciavo ad amare il ciclismo attratto dalle grandi imprese del mio idolo Fausto Coppi, guardavo quell’omino e mi dicevo: ma pensa un po’, questo qui ha fatto le stesse cose di Coppi, deve essere stato un fenomeno. In quella bottega sarei tornato molte altre volte, anche quando la prima biciclettina era ormai scappata di misura e avevo fatto la scoperta della primi bici col manubrio da corsa. Ci sarei tornato anche dopo il
1968, l’anno in cui il signor Antonio fu portato via da un male inguaribile e la sua attività venne continuata dal figlio Guglielmo, a sua volta corridore, grande pistard ai tempi d’oro di Maspes, Gaiardoni, Messina, Morettini, Faggin».
Antonio Pesenti era nato a Zogno, in val Brembana, nel 1908. Il piccolo “Tone” rimase presto orfano di padre e madre e fu allevato da una coppia di zii nelle stentate condizioni che una povera famiglia valligiana poteva garantire nei magri anni all’indomani della Grande Guerra. Il Tone cresceva «tozzo, robusto, taciturno, addirittura scontroso, fin da piccolo è poco propenso a perdersi in chiacchiere, tanto che uno dei soprannomi che gli viene appiccicato addosso negli anni a venire sarà “il mulo di Zogno”. Ma quando inforca la sua bicicletta, un ferrovecchio pesante una ventina di chili, si sente in paradiso».
L’incontro con le corse è alquanto fortuito. Ha circa vent’anni quando va a trovare in Francia, naturalmente in bicicletta, un fratello che era andato Oltralpe a cercare fortuna come muratore – era capitata pochi anni prima la stessa storia al grande Alfredo Binda – e proprio sulle strade transalpine Pesenti comincia a gareggiare, scoprendo di saperci fare. Nel 1929 partecipa, da isolato, alla Parigi-Rouen giungendo a sorpresa addirittura 4°; poi si schiera al via al Tour du Sud-Ouest, e si piazza 8° in classifica finale, sfiorando anche qualche successo di tappa. E allora decide di iscriversi, sempre da isolato, al Tour del France, durante il quale si confronta con il gotha del ciclismo internazionale, da Nicolas Frantz ad Antonin Magne, da Maurice Dewaele – che vincerà la corsa – a Jef Demuysère. Si difenderà finché potrà, prima di essere costretto al ritiro per alcuni incidenti meccanici, oltre che per l’immane fatica a cui non è preparato. Al ritorno in Italia tutto questo gli vale un contratto da professionista con la Umberto Dei. Con il marchio milanese, Pesenti partecipa al Giro del 1930 e del 1931, piazzandosi 5° e 7°. Nel 1931 è anche convocato a far parte della rappresentativa italiana al Tour, dove si rivela grande protagonista, salendo addirittura sul podio, alle spalle del vincitore Magne e di Demuysère. La consacrazione avviene però l’anno seguente, il 1932, quando viene scritturato per la Wolsit, la seconda marca della Legnano, e conclude vittorioso la prova (13 tappe per 3235 km) precedendo il belga Demuysère della Ganna e Remo Bertoni della Legnano. Vince anche una tappa, la Lanciano-Foggia, di 280 km, davanti Raffaele Di Paco. Passa un mese e Pesenti sfiora l’impresa anche al Tour, dove giunge 4° ma conquista anche in questo caso una tappa, la tappa pirenaica Pau-Luchon. Ma tanto è stata rapida e sorprendente l’ascesa del Tone quando repentino è il suo declino: dopo quelle due fantastiche stagioni, coronate dalla vittoria al Giro, non saprà mai più ripetersi su quei livelli.
Il libro di Serantoni, narrando le imprese del “mulo di Zogno”, trova modo di ricordare altri due importanti figure ciclistiche bergamasche degli anni Trenta. Uno è Gino Tramontini, classe 1906, da Borgo Santa Caterina, che, da isolato – e grazie alle generose sottoscrizioni di molti suoi concittadini che lo “adottano” a distanza – al Giro del 1923, proprio quello vinto da Pesenti, termina al 19° posto della classifica generale e 5° della categoria isolati. L’altro è Gino Gotti nato nel 1912 a Sedrina, in val Seriana, lo stesso paese di Gimondi. Gotti s’iscrive al Giro da isolato nel 1934 e arriva addirittura 5° in classifica generale. Lo aveva corso con l’obiettivo di arrivare almeno fino alla 15a tappa a Trieste, dove avrebbe voluto dire una preghiera sulla tomba del padre, lì sepolto alcuni anni prima, vittima di un incidente sul lavoro. L’anno successivo è messo sotto contratto dalla Legnano e vince la Milano-Torino e la Milano-San Pellegrino. La sua stagione migliore è quella del 1938, in maglia Dei, quando conquista una tappa al Giro – la Sanremo-Santa Margherita Ligure – e una al Giro dei Tre Mari – la Lagonegro-Cosenza – . Lo chiamavano “El brutt” perché in bicicletta era così scomposto da sembrare una rana. Di lui, il grande Orio Vergani, scrisse che «corre a gambe larghe come se avesse le sottane». Con i soldi guadagnati al suo primo giro (12.375 lire) fece traslare la salma del padre da Trieste al cimitero di Sedrina e regalò una radio alla madre: «Così potrai ascoltare i risultati delle mie corse» disse.