Tra le penne illustri che seguono il Giro d’Italia durante gli anni dell’epopea di Coppi e Bartali c’è anche Alfonso Gatto.
Uomo della sinistra, che aveva vissuto tra il carcere e la Resistenza gli anni della guerra, viene inviato al seguito della carovana dal direttore de L’Unità, Pietro Igrao. Insieme a Vasco Pratolini, come visto su Biciclette d’Epoca n°41, Gatto viaggia sulla macchina del partito al seguito della corsa nel 1947 ma, sebbene il mezzo fosse lo stesso, i due hanno un approccio al Giro completamente differente.
Se il poeta Gatto si adatta bene a fare il testimone, raccontando e aprendo al lettore la visione dell’Italia che si raduna intorno al Giro, lo scrittore fiorentino non si accontenta di fare la “spalla di colore”. Per lui c’è sia la ricerca del mondo fuori del microcosmo fiorentino sia la forte passione sportiva. Mentre Gatto dall’inizio alla fine percepisce questo viaggio nel Giro come un sogno atemporale da cui si risveglierà una volta rientrato a casa, Pratolini perderà ben presto, nel giorno dello sciopero, la sua dimensione entusiastica e irreale. Pratolini progredisce durante il Giro, attraversa varie fasi, viceversa il poeta è più lineare: osserva ma non interviene sui temi forti della carovana.
Se Pratolini si scaglia contro i corridori in sciopero, Gatto ignora l’accaduto, non ne scrive una sola riga. Pratolini vive quel Giro con un’intensità tale che ben si percepisce nella sua scrittura, fino all’apogeo, con l’articolo su Bartali. Gatto, invece, sembra scrivere da un’altra dimensione.
Fin dal primo articolo il poeta confida ai lettori: «Sarò l’unico inviato che non sa andare in bicicletta. “Vergogna” direte voi. Me lo dico anch’io e non da oggi». Ecco, in questa ammissione c’è tutto lo spirito con cui Gatto affronta il Giro. Si vergogna di non aver mai imparato, ma al tempo stesso questo mancanza gli offre un punto di vista inedito: «Però, per il nostro giornale, che vantaggio! Riuscite a immaginare le emozioni in servizio esclusivo che riceverò, le mie meraviglie per episodi e per incidenti che gli altri miei colleghi nemmeno prenderanno sul serio, il mio originario stupore per quei benedetti ragazzi che riusciranno a volare su due ruote sole come angeli?».
Sente il Giro come qualcosa che appartiene alla propria storia, alla sua vita: «Questo Giro d’Italia, che tra poche ore s’inizierà da Milano ha la mia stessa età, trentotto anni suonati. Siamo nati nel 1909, abbiamo fatto le stesse guerre, abbiamo avuto le stesse speranze e le stesse paure, siamo ancora in buona salute, a parte qualche acciacco».
L’INCONTRO CON COPPI
Manca, però, ancora una vera interazione tra il Gatto giornalista sportivo e il poeta testimone. Poi, nel giorno di riposo a Pescara, mentre Pratolini scrive la sua requisitoria contro i ciclisti, Gatto è avvicinato da Fausto Coppi che si offre d’insegnargli a pedalare: «Si immagini quale onore è per me; ma è come se un bambino che deve frequentare la prima classe abbia per maestro un professore d’Università», risponde il cronista imbarazzato. Ma Coppi non desiste e nel pomeriggio i due s’incontrano. Così, per un giorno, nel cuore del cronista si riaffaccia la speranza, là dove da qualche tempo albergava la vergogna: «in bicicletta vanno tutti, le donne e i bambini, i preti e i soldati. Io soltanto no».
Gatto aveva una sorta di venerazione per Coppi, e la stima era reciproca, ma i tentativi dei due sono vani; il poeta, avvilito, li rivela con queste parole: «Per un attimo ho provato la dolcezza del volo, sapendo di cadere ed ero già caduto nella polvere come un guerriero antico. […] Ma di una cosa sono certo: che se io sapessi andare in bicicletta sarei un campione. È ridicolo che ci serva di quella macchina da angeli per camminare come fanno tutti. Cadrò, cadrò sempre fino all’ultimo giorno della mia vita, ma sognando di volare».
Poi, nel giorno del Pordoi, Gatto si fa travolgere dalla gara, dallo scontro tanto atteso, facendo precipitare il lettore direttamente sulla strada, come se fosse in un film: «Col fazzoletto legato sotto gli occhi come un bandito, Binda correva dietro Coppi per la discesa del Pordoi. Eravamo alla sua ruota. In qui momenti la Maglia Rosa di Bartali a poco a poco si sfilava. Il Giro aveva rotto tutti i vincoli, aveva sciolto tutte le riserve. Era giusto che anche Binda volesse mettersi nella polvere la sua vecchia maschera di eroe».
Ecco, infine, il Giro eroico, la realtà che richiamava le vivide sensazioni della memoria, il Giro dei pionieri: «La vittoria di Coppi è bellissima: questo era finalmente il Giro della mia infanzia». Coppi aveva vinto e Bartali era sconfitto. Il giovane Airone aveva aperto le ali, mentre il Vecchio delle Montagne arrancava sempre più.
Un uomo che soffre e che lotta per raggiungere lo scopo; questo è Bartali per Vasco Pratolini. Anche Gatto, forse con minor pathos, ne traccia i confini malinconici: «La gara poteva dirsi ancora aperta, ma l’uomo che doveva essere il protagonista era già all’oscuro del terreno che ad ogni passo perdeva o guadagnava. Da allora, per tutta la strada, egli ha visto davanti a sé mani aperte ad indicargli e spesso mentirgli, per incoraggiamento, i minuti di distacco; questa affettuosa pietà era per noi come una sferza. Chiedeva anche quanto distassero da lui i suoi inseguitori, uomini che fino a ieri sembravano di un’altra razza. Se poi è riuscito a guadagnare qualche minuto, ha perduto il cielo e la terra che prima lo mostravano, come hai tempi delle vittorie, un punto rosa in vetta alle salite, un punto rosa nella valle come una nuvola di polvere. Ma io non mi rassegno alla sorte nella quale egli è finito con l’abbandonarsi. La sua immagine si è come cancellata, è come scomparsa nel gruppo: il campione rappezzava la propria maglia verde, di viola, di rosso, di tutti i colori con cui la sorte cercava di vestirlo ora che era nudo».
UN VIAGGIO NEL SOGNO
Il Giro del ‘47 è vissuto come una sorta di viaggio onirico, di sogno di cui Gatto ci racconta. Il poeta si era addormentato nel primo articolo («adesso è ora che vada a dormire»), e si risveglia nell’ultimo resoconto da Milano: «Stamane all’alba mi sono risvegliato. Ho chiesto al mio vicino di stanza:
“A che ora si parte?”. Nessuno mi ha risposto. Ero solo, mia figlia camminava adagio per non far rumore. Il Giro era veramente finito».
Saluta uno ad uno i suoi conoscenti, quasi che la sua vera famiglia fosse quella della carovana e non quella a casa. Per il poeta il sogno del Giro è completo, piacevole dall’inizio alla fine, non ha sofferto come Pratolini una fase di delusione e abbattimento. Il Giro, le sue storie, quelle dei ciclisti e quelle della gente che lo segue, sono stati realmente il mondo favoloso di cui aveva sempre sognato e che cercava in quest’avventura:
«“Anche tu sei un bambino” mi ha detto Aldo proprio al momento in cui una curva lo spingeva nel mio petto. È vero, è vero, quello che io vado ripetendo: il Giro è una meravigliosa corsa umana; il suo vero traguardo è la felicità che è nel nostro cuore pronto alle emozioni e alle sorprese».
IL GIRO DEL 1948
Le cose cambieranno l’anno seguente, allorquando Gatto tornerà al Giro. Quando Pratolini si ripresenta al Giro, nel 1955, lo fa con maggiore disincanto, ma con una passione ancora grande e forte, rispetto al Giro del ‘47.
Gatto, nel 1948, alla sua seconda esperienza in carovana, mostra un lato nuovo del suo essere giornalista e poeta testimone. Si concentra maggiormente sulla corsa, raccontando vicende e situazioni di gara, tralasciando quei toni di colore che lo avevano caratterizzato l’anno precedente.
Ciò non vuol dire che il poeta abbia perso la sua vena pittorica: «sono tutti gialli, verdi, vermigli, i girini della caravana», o il suo humour: «sarò un carovaniere all’aperto se la pioggia non vorrà abbandonarci mi abbevererò come un albero, come un cammello, come una rana. Ben detto: come una rana. Forse soltanto così potrò sperare d’essere veramente un girino».
Più semplicemente ha un anno in più e un’esperienza maggiore. Il suo “risveglio” a Milano, alla fine del Giro del ‘47, il suo malinconico saluto ai membri della carovana tornano subito alla memoria del lettore leggendo il primo articolo della nuova serie: «Sono passati esattamente undici mesi da quando la carovana si sciolse al Vigorelli e ci siamo di nuovo. Stringiamo la mano al signor Cougnet e salutiamo in lui il trentunesimo Giro d’Italia che va a cominciare».
L’attesa è stata lunga – «esattamente undici mesi» – ma finalmente è finita, e si ricomincia. L’entusiasmo del poeta è ancora quello dell’anno precedente: «Tra qualche ora io e Michele [Quartieroni, l’autista, ndr] partiremo puntando su Milano. È una tappa straordinaria senza traguardi e senza premi, ma la nostra macchina sarà spoglia finché non avrà il suo roseo cartello con nome scarlatto della carovana, finché sul tetto non sventoleranno le bandierine della Gazzetta. Allora ci sentiremo veramente ripescati nel romanzo del Giro alla stessa riga in cui lo lasciammo l’anno scorso. Dirà il racconto: “Gatto aveva adesso la tuta azzurra, ma non sembrava più vecchio di un anno”».
ETTORE E ACHILLE
La “spettacolare grandezza di Coppi” lo seduce; la sfortuna di tanti che perdono per un nonnulla, quando magari già credevano d’aver vinto, lo commuove: così gli sfortunati, i vinti, hanno la sua simpatia. Ad Achille preferisce Ettore: «La storia della guerra di Troia è storia di vincitori e anche di vinti: di Ettore oltre che di Achille. Questa tormentosa e ubriacante tappa oggi ha ancora una volta scritto nell’albo d’oro del Giro il nome dello stesso incendiario di due giorni fa: Vincenzo Rossello».
Se Gatto identifica, in generale, i capitani e i campioni con Achille e i gregari con Ettore, diversamente, pur usando le stesse similitudini, farà Dino Buzzati l’anno seguente, al Giro del 1949.
Anche in questo Giro del ’48, comunque, saranno le montagne a decidere il vincitore: «Lo troveremo sulle montagne ve lo assicuro. È tradizione di tutti i buoni romanzi polizieschi che il mistero si sciolga alle ultime pagine dell’ultimo capitolo. E quest’anno il vincitore sarà a suo modo un fantasma trovandosi a vivere in tempi che sembrano tornati propizi alle streghe e ai miracoli».
Ma la soluzione che la corsa propone non piace al poeta: «Doveva essere una tappa triste, come avrò modo di dirvi: l’ha accompagnata la musica di tutti i paesi perduti dalla carovana per chilometri e chilometri. L’epico scatto di Coppi a due chilometri e mezzo dalla vitta del Falzarego, il suo impeccabile a solo sul Pordoi, non valgono a dissipare la tragica ironia che ha abbattuto Cecchi sulla soglia della salvezza».
Cecchi, la Maglia Rosa in quel momento, va in crisi e perde il simbolo del primato: «È andata purtroppo così: nata nell’avventura questa tappa aperta dalla spettacolare grandezza di Coppi solo sulle abbaglianti gradinate delle cattedrali dolomitiche, si è chiusa con la tristezza di Cecchi che arranca disperatamente sulla pista dello stadio di Trento, non osa mettere piede a terra, vacilla e sembra che rida con il suo stesso pianto».
«Il Giro, così, si trova a dichiarare vincitore il più fortunato degli opportunisti». La malinconia che si percepisce nelle parole dello scrittore ha un senso di disillusione, molto simile a quello provato l’anno precedente da Pratolini, quasi una sorta di sconfitta dei valori sportivi in cui il poeta crede. Il Giro è vinto da Fiorenzo Magni, tra le proteste generali per sospette spinte in salita. Coppi e la Bianchi non ripartono e anche Gatto non arriva a Milano, si ferma per strada. L’ultima cronaca del poeta su questo Giro è del 4 giugno da Trento; Milano dista solo due giorni.
un poeta che racconta il giro
Nasce a Salerno nel 1909 ed è stato poeta ermetico, scrittore, critico letterario (fonda nel 1938 con Vasco Pratolini la rivista Campo di Marte), critico d’arte, pittore ed insegnante. Iscritto dal 1944 al PCI diventa ben presto una delle colonne de L’Unità e assumendo una posizione di primo piano nella letteratura di ispirazione comunista. Come inviato speciale de L’Unità arriva al Giro d’Italia nel 1947, dove ritrova l’amico Vasco Pratolini. Tornerà al Giro anche nel 1948, ma non concluderà la corsa… Morirà, a seguito di un incidente d’auto, ad Orbetello nel 1976.