“Ma dove vai con i capelli al vento, il cuor contento e quel sorriso incantator…”.
L’immagine di una bella ragazza che pedala in bici richiama, almeno per le generazioni non più giovanissime, il testo di “Bellezza in bicicletta”, canzone di Silvana Pamparini scritta agli inizi degli Anni ’50, tutta intrisa di gioia di vivere. Il periodo del Dopoguerra si buttava alle spalle gli anni duri della sofferenza, dei sacrifici e della fame. Quale immagine poteva meglio esprimere spensieratezza, gioventù e libertà se non quella di una bella ragazza che pedala felice sulla sua bici? “Le gambe belle, tornite e snelle m’hanno già acceso la passione dentro il cuor…”.
Ma, per mostrare un tale fisico da pin-up tutto made in Italy, le donne ne hanno dovuta fare di strada in sella alle bici. Come abbiamo già raccontato nello scorso numero, ampiamente dedicato alle pioniere del ciclismo, sul finire dell’800 le signore cominciarono a prendere atto che la loro condizione non poteva più essere relegata a quella degli inizi del secolo. Private dei diritti a possedere un lavoro e una rendita, le donne iniziarono a chiedere a voce sempre più alta la libertà. Libertà di pensiero, di voto e soprattutto di movimento. La bicicletta rappresentò per loro il mezzo su cui puntare per ottenere il tanto agognato traguardo.
Negli Stati Uniti Susan B. Anthony incentivò nei suoi scritti il suffragio universale femminile e il veicolo che meglio si prestava ad aiutare le donne nella loro battaglia fu proprio la bicicletta. Il modo più semplice per inforcare il velocipede? Anthony non aveva dubbi: indossare i pantaloni. L’americana Amelie Bloomer (1818-1894) progettò quindi, ispirandosi all’abito detto “alla turca”, i famosi “bloomers”, primissimi, rudimentali, pantaloni da “ciclistA”, che venivano indossati sotto a una gonna corta e abbinati a un classico giacchino femminile. L’amore e la passione per la libertà portarono Amelie a pubblicare i cartamodelli per realizzare i pratici pantaloni, in modo che si potessero cucire in casa. L’abbigliamento delle donne doveva ben adattarsi alle loro esigenze di libertà e movimento, così per la prima volta praticità e comodità divennero caratteristiche del guardaroba femminile, mentre aggettivi come “grazioso” e “frivolo” passarono in secondo piano. Le signore più audaci iniziarono così, attorno al 1851, a farsi confezionare il mitico capo di abbigliamento riservato fino ad allora ai soli uomini, creando molto scalpore ma anche una moda!
CAMPAGNE DI OPINIONE
Ma chi più di una ciclista poteva intuire quale tipo di abbigliamento si adattasse meglio alle forme del corpo femminile? Fu il caso di Florence Wallace Pomeroy, viscontessa Harberton, una lady inglese appassionata delle due ruote e presidentessa della Rational Dress Society. Questa associazione, sorta nel 1881, aveva come scopo quello di definire l’abito perfetto, chiamato dai soci come “razionale”, che garantisse libertà di movimento e mantenesse un buon gusto. La Rational Dress Society si opponeva all’introduzione di qualsiasi moda che deformasse la figura, impedisse i movimenti del corpo o tendesse in qualche modo a nuocere alla salute. Dato che sul finire dell’Ottocento i resoconti sugli incidenti di cicliste che indossavano le gonne apparivano abbastanza frequentemente sulla stampa, perché i numerosi strati di gonne si incastravano nei raggi, Lady Harberton non smise mai di promuovere l’uso dei tanto vituperati pantaloni. Ma per non rischiare il ridicolo, molte signore continuarono a preferire il classico abito femminile, scomodo ma ben tollerato dalla società.
Ricordiamo inoltre che le signore montavano a cavallo “all’amazzone” ovvero sedendo di fianco. Guai a divaricare le gambe come facevano quelle sfrontate di cicliste! Fu proprio una sfrontata, insofferente al suo triste destino, a farsi confezionare da un sarto specializzato in abbigliamento da gentiluomo di campagna un outfit da cavallerizza, con pantaloni modellati su quelli di un palafreniere. Il suo nome era Gabrielle Chanel, detta Cocò, quando ancora non sapeva che cosa avrebbe fatto della sua vita, ma già sapeva bene il fatto suo.
Con o senza pantaloni, la bicicletta divenne il passatempo preferito dell’ultimo decennio dell’800. A Parigi gli uomini per sfrecciare lungo i viali del Bois de Boulogne erano soliti indossare ampi calzoni chiusi al ginocchio, giacchetta attillata (Norfolk), berretto alla marinara, calze di lana e scarpe dal tacco basso. Le signore, invece, indossavano un pantalone maschile con gamba molto ampia o la pericolosa gonna lunga. A Londra, in Battersea Park, nel 1895, le prime dame travolte dalla passione per il velocipede abbinavano a calzoni o gonne bluse con maniche “a prosciutto” e cappelli guarniti da piume.
MODA E SPORT
L’unione tra moda e sport avvenne tra il 1920 e gli Anni ’30, quando oramai le donne avevano acquisito un ruolo di rilievo nella società, al punto che alcune di loro erano diventate vere e proprie icone della moda. Tra queste ricordiamo Elsa Schiapparelli, creatrice di abiti estrosi e proposti nell’inedito colore rosa shocking. Anche la già citata Chanel, che mal sopportava l’estro creativo dell’italiana Schiapparelli, sosteneva al pari di questa che le donne dovessero praticare gli sport e una sana vita all’aria aperta, resa confortevole da pratici pantaloni e da capi realizzati in morbido tessuto jersey presi in prestito dal mondo dei marinai. Era solita dire: «Quante ragazze sarebbero più belle con le loro perle portate sulla pelle dorata dal sole».
Per tornare a parlare prettamente di abbigliamento femminile dobbiamo fare un salto negli Stati Uniti dove, agli inizi degli Anni ’40 Claire McCardell studiò un abbigliamento di maggior comfort per le donne che amavano come lei muoversi e spostarsi in bicicletta. La “stilo-ciclista” produsse un abito non strutturato con allacciatura “popover” (ovvero simile alle polo) e dalla buona vestibilità, perfetto per chi come lei sfrecciava dinamico verso gli Anni ’50. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale si assistette al progressivo inserimento di tessuti tecnici nei capi di abbigliamento sportivo. Il ciclismo femminile, oramai accettato e sostenuto sia dagli sponsor sia dal pubblico, si adeguò e attinse dalle divise maschili sfruttando tutte le innovazioni che il mercato proponeva.
Non possiamo concludere questa pedalata nel mondo della moda femminile legata al ciclismo senza parlare di colei che riassume nella sua storia tutti gli sforzi e i bocconi amari buttati giù dalle donne per la loro emancipazione: Alfonsina Strada, a cui abbiamo dedicato la copertina dello scorso numero. A oltre 130 anni dalla sua nascita ricordiamo questa atleta dotata di un carattere determinato e di una grande passione che sin da ragazzina l’avevano spinta ad allenarsi sulle strade dei borghi emiliani, guadagnandosi il soprannome di “diavolo in gonnella”. Al Giro d’Italia del 1924, unica donna partecipante, guadagnò i soldi necessari a pagare sia la retta dell’istituto di cura psichiatrica in cui il marito era stato costretto sia quella del collegio della nipote. Alfonsina, lasciate le gare agonistiche si dedicò al suo negozio di biciclette in via Varesina a Milano, che raggiungeva ogni giorno indossando un’abbondante gonna pantalone e utilizzando ciò che l’aveva resa una donna libera: la bicicletta.
A cura di: Sara Lemmi