Terminato il Giro d’Italia del 1947, e per otto anni, Pratolini si trova ad abbandonare l’attività di giornalista sportivo (unica eccezione l’articolo Noi tifosi del 1952 su Il Nuovo Corriere).
Ciò che impone una tale scelta è la necessità di isolarsi e concentrarsi appieno sul proprio lavoro di romanziere. Ricominciare nel 1955, come inviato sia del Il Nuovo Corriere che di Paese Sera, non è solo la volontà di prendersi una vacanza dai romanzi, ma anche il desiderio di staccare con il mondo letterario che non lo comprende.
Stavolta non ci sono fasi evolutive nel suo discorso narrativo, ma un’unica costante direttrice: il senso di passione per lo sport, ma con distacco, che è al centro dell’articolo Noi tifosi, una sorta di ‘dichiarazione d’intenti’ a cui lo scrittore-tifoso si attiene nelle cronache di questo 38° Giro d’Italia. Pratolini propone di sostituire l’accaloramento della passione, che caratterizza gli articoli del 1947, con un affetto mediato e temperato da una completa padronanza di quelli che potremmo chiamare gli strumenti tecnici del mestiere di giornalista sportivo. Il suo intento ora è “cogliere, lungo il cammino, i momenti che forse resteranno nella memoria”; questo “perché fuori dalla mischia, ci si appassiona”.
È un Pratolini diverso questo del 1955 rispetto al grande entusiasta che aveva seguito la corsa di otto anni prima. Nel 38° Giro d’Italia, che parte da Milano il 14 maggio, Pratolini si sente un ‘richiamato’: «non sono un veterano del Giro, ma nemmeno una recluta, mi considero diciamo un richiamato». Un richiamato che torna in vacanza al Giro, come lo scrittore afferma:
«È il Giro d’Italia e delle mie vacanze, come vi raccontai la mattina che partimmo da Milano. Non ho obblighi di cronaca, mi godo la corsa come un ospite che fatte le presentazioni si mette da una parte e osserva lo spettacolo».
UN GIRO IN VACANZA
Il senso di vacanza si percepisce anche in altri frangenti, come quando, a Trieste, Pratolini fa visita al poeta Saba: «Un amico triestino, che sa di ciclismo quanto io so di gaelico, ma che del Giro conosce la rumorosità e l’invadenza, perché potessimo conversare in pace, mi ha dato appuntamento al Caffè Nazionale. […] Trieste è piena di queste sollecitazioni: stamani avevo percorso, passo passo, via del Lazzaretto Vecchio, declamando da solo i versi di Saba, prima di recarmi a visitare con umiltà, la riconoscenza e l’affetto che gli si deve, il vecchio Poeta. Egli ha avuto una luce di paterna ironia in quei suoi celesti occhi di fanciullo, nell’apprendere la mia vacanza di “girino”. E come d’affettuoso consenso, lui, che oltre tutto, ci ha dato le più belle poesie del nostro secolo, dedicate allo sport e alla squadra di calcio alabardata».
Come nel 1947, quando Pratolini aveva seguito il Giro sulla macchina de L’Unità con Alfonso Gatto, anche nel 1955 segue la corsa insieme a un’altra ‘penna illustre’: Anna Maria Ortese, inviata dal settimanale L’Europeo. L’incontro lo racconta la Ortese stessa, perché la circostanza è totalmente elusa nella narrazione di Pratolini: «Una macchina, stranamente, rallentava, si fermava, un uomo in berretto bianco era sceso a terra. Quasi non riconosciamo lo scrittore Pratolini. ‘Ma lei cosa fa qui?’ ‘Il Giro’ ‘Cosa, il Giro?’ ‘Vorrei partire col Giro’ ‘Per andare dove?’ ‘In Italia col Giro’ ‘E scrivere anche?’ ‘Anche’. ‘Guardi che non si vede niente’. ‘Lo so’. […] Ci guardò con bontà, un sorriso assai lieve: ‘può salire’».
Metaforicamente, come una ruota che gira e torna al punto di partenza, è proprio Vasco Pratolini a dare un passaggio all’Ortese. Lui, che in quel 1947 aveva chiesto ospitalità alla macchina de L’Unità di Gatto, si trova ora nella situazione inversa. Lo scrittore diventa così il vecchio suiveur delle corse, colui che introduce la neofita collega nel mondo prettamente maschile del ciclismo (per proteggerla le impone di togliersi il rossetto e calzare un cappellino in testa a coprire i cappelli).
Anche la Ortese, alla prima esperienza al Giro, come i suoi colleghi prima di lei viene travolta dall’entusiasmo, dall’iniziale festa leggera dei colori del Giro: «L’ammirazione era dovuta ai colori e all’animazione straordinaria che regnavano in quella piazza di Genova, dove le maglie rosse dei corridori, le tute color cielo dei meccanici, le divise nere e rosse dei carabinieri, quelle verdi della polizia, e l’infinita varietà di cravatte estive e camicie e giacche e calzoni sportivi degli addetti al seguito, si mostravano in mezzo alla processione delle macchine». I colori del Giro del resto non smettono mai di sorprendere gli scrittori; in tal senso basta ricordare le parole di Gatto: «Sono tutti gialli, grigi, vermigli, i girini della carovana. Facciamone un bel mazzo, come se fossero tutti fiori campestri, e appuntiamolo sul petto della primavera».
La Ortese assomiglia molto a Buzzati nella sua scrittura. Come per il cronista del Giro del 1949, nella scrittrice si trova un dualismo d’espressione, in cui realtà e fantasia si fondono e si contrappongono: «Guardavamo dietro di noi: precipitavano le biciclette. La folla era sparita, Tutto questo non durò mezz’ora, né un’ora, ma molto di più. […] Non c’era più il sole, né niente. Volanti che tremavano per sfuggire alle mani, mani chiuse orribilmente intorno al volante, volti impalliditi o tesi, cappelli che si alzavano immobili al vento e, indietro gli occhi fermi, lo sguardo che va segretamente alla casa, ai ragazzi, ai rumori e alle voci note. Vento. Buio».
Lo spavento della scrittrice è tale da essere al centro dei suoi pensieri anche dopo una settimana. Lei scrive per una rivista settimanale, i suoi compagni per quotidiani, lì sta la grande differenza. L’aver più tempo per scrivere e non avere il problema di riportare le cronache di gara e arrivi, le permette di variare con più ampiezza sul tema. Così le sensazioni, libere di spaziare, e il continuo confluire di realtà e fantasia, segnano la scrittura dell’autrice.
UN CIRCO IN TRALICE
Per il più cinico Pratolini l’idea del Circo Barnum (la metafora con cui aveva descritto il Giro durante la sua prima partecipazione) è sempre presente, ma si intuisce in ‘controluce’: «Questo, va ripetuto, non è il Giro d’Italia, è una sagra paesana, che dura ventitré giorni e ogni sera si accendono le luminarie». C’è ancora l’Italia da raccontare, anche se, come il Giro, anch’essa è cambiata, ha risanato, in parte, le sue ferite: «C’è tuttavia lo spettacolo, quello della platea, a cui sia abituati e che nondimeno sempre ci sorprende. L’uomo ritto sul paracarro, la scolaresca con le bandierine, gli operai che indosso le tute di lavoro, i contadini dai grandi cappelli di paglia e le toppe ai ginocchi, i muratori sulle impalcature». A otto anni di distanza più che la corsa sono piuttosto annotazioni di costume che interessano Pratolini, lasciate cadere qua e là a ridosso di singole situazioni. Richiami letterari, o cinematografici, prevalgono sulla cronaca sportiva, ma non tutti hanno egual importanza.
Per la Ortese il muro umano delle strade che è ricorrente sia nel primo che nel secondo articolo ora si trasforma in quello di diffidenza, di distacco, da parte della gente del Giro nei confronti di questa donna: «Conoscere altri corridori, e soprattutto campioni, sarebbe stato forse possibile se avessimo avuto maggiore coraggio. Ma ci tratteneva sempre dall’avvicinarli quel muro stregato che la diversità di classe alza in Italia tra gli uomini. […] Salvo questi uomini, essi sono diffidenti, un po’ tristi, ostili». La scrittrice ‘abbandona’ la gente della strada per concentrarsi sugli uomini in bicicletta.
Ciclisticamente ci troviamo di fronte all’alba di un passaggio generazionale. Bartali si è ritirato nel 1954 ed è presente al Giro come commentatore, mentre Coppi e Magni si stanno avviando a loro volta sul viale del tramonto. Nuove leve come Gastone Nencini e Aldo Moser si affacciano all’orizzonte. Due generazioni a confronto, quindi, che Pratolini osserva attentamente. Conosce bene il valore dei campioni ed è curioso di misurare quello dei nuovi: «La guerra, se così vogliamo esprimerci, fra giovani e anziani, questo motivo dominante della vigilia, è stata ufficialmente dichiarata. Da una parte c’è Coppi e c’è Magni. Dall’altra le nuove leve che hanno eletto [Aldo] Moser e Monti per alfieri. Come d’accordo, scappando e inseguendosi, ciascuna delle due parti ha saggiate le forze dell’altra schiera».
Pratolini è interessato all’uomo Coppi, alla vicenda personale e familiare (quasi fosse il personaggio dei suoi romanzi), che proprio durante quel Giro diviene padre di Faustino, partorito il 13 maggio 1955 (il Giro parte il giorno dopo) a Buenos Aires dalla compagna Giulia Occhini Locatelli: «D’un tratto, non si sa come, è esplosa la notizia che a Buenos Ayres era nato un bambino. ‘Non mi dite nulla’. Badava a ripetere Fauso a chi gli faceva gli auguri. La gente sotto il sole, ignara, e distante qualche decina di metri, di tanto in tanto applaudiva».
Un Coppi che Pratolini prova a spiegare a quei tifosi che, di fronte alla sua vicenda sentimentale, lo abbandonano, imputando alla sua compagna, la celebre ‘dama bianca’, la sua intervenuta incapacità di vincere. A segnare inevitabilmente il rendimento del Campionissimo non è tanto (o solo) quella situazione familiare e personale che ha comportato anche condanne penali, quanto la sua condizione psicologica, l’incerta fiducia nei propri mezzi che denunciano, con gli anni, la decadenza del campione.
Poi, con la stessa ammirazione che aveva avuto per Bartali nel resoconto del 1947, sottolinea: «Voi che amate Fausto Coppi, vogliategli, semmai, bene ora più di prima. E come era un po’ fanciullesco che lo idolatraste, prima, non fatene, proprio oggi e a maggior ragione un mito. È stato un grande campione, continua, in gran parte, ad esserlo tuttora».
La figura di Fausto è quella che serve alla Ortese per andare oltre il muro di apparente indifferenza dei ciclisti. Un suo momento di difficoltà le apre gli occhi: «Mentre il corpo rimaneva immobile, e quasi rilassato, il volto patito e duro che tutti conosciamo si muoveva in qua e in là, con una pena particolare, sorridendo senza sorridere […] Gli occhi splendevano come di lacrime, un sudore copioso. […] Come il becco di un rapace sfinito, il suo naso pungeva l’aria, il bianco della polvere».
LA FORZA DI GASTONE
La corsa sembra aver trovato il suo vincitore. Gastone Nencini mantiene la maglia rosa anche dopo la tappa dolomitica, pur non distanziando a sufficienza i più diretti avversari (Giminiani lo segue a 43”, Magni a 1’29”, Coppi a 1’42”). Resta una tappa, la Trento – San Pellegrino, che si presta ad un’imboscata. Sarà proprio lì che i grandi vecchi troveranno l’accordo per spartirsi tappa e maglia ai danni del giovane puledro.
Interessante appare, nell’analizzare la sconfitta di Nencini, il confronto tra i due punti di vista: quello della Ortese (che vede il corridore come il vincitore morale) e quello di Pratolini (che lo critica per mancanza di acume tattico).
Dice la Ortese: «Certo, dalla ‘sorpresa’ in questa penultima tappa, la Trento – San Pellegrino, la figura di Fauso Coppi è emersa grandissima, e così quella di Magni: ma non è una grandezza calda. Il gioco, legittimo e anche indispensabile, ove l’avversario fosse stato un altro (avvertito, scaltro, adulto), appare rovinato dalla presenza di Nencini. […] Nencini che aveva corso tutta l’Italia, denti stretti, dietro questa maglia, e l’aveva presa a Ravenna e conservata sulle Dolomiti, con un valore di cui, forse, non era lui stesso cosciente, Nencini non meritava le imboscate del Giro».
Mentre Pratolini: «Ho molta comprensione per Nencini, questa sera, come per un amico in disgrazia, un parente a cui sia capitato un grosso guaio, molta comprensione dal lato umano; poca dal punto di vista sportivo. Il Giro, egli, non lo ha perso nella Trento – San Pellegrino, ma nel tappone delle Dolomiti. Domani saranno in molti a rimproverargli di non avere, comunque, tentato […] Ché, soprattutto questo m’importa, lo avrebbe laureato campione. Forse non ci sarebbe riuscito, ma che lo avesse tentato, e ne avesse dimostrato con tutta la forza l’intenzione, questo sarebbe bastato perché stasera si potesse mostrargli non soltanto della comprensione umana, ma la nostra solidarietà di sportivi».
A Pratolini interessa non tanto il vincente, quanto il perdente purché non rassegnato. Del resto l’aveva detto: «Quando un uomo è in disgrazia attrae, purché, naturalmente, non sia finito. L’ora della riscossa sarà anche la nostra ora». Queste caratteristiche erano state proprie di Bartali negli anni del Duello, che pur soccombendo di frequente agli attacchi del più giovane rivale non rinunciava mai all’inseguimento.
Infine il commiato: l’avventura finisce nel giorno della festa. La giornalista che era partita al seguito della corsa ben intenzionata a raccontare l’Italia lungo le strade del Giro, con spirito quasi distaccato dalla corsa arriva, invece, a destinazione con la stessa malinconia di un appassionato come Gatto («e ora, Addio a tutti. Meglio non parlarne più»).
«In questo modo, col trionfo dei vecchi idoli, e il pianto di Gastone Nencini che aveva vinto inutilmente le orrende Dolomiti, e addosso non aveva più la sua maglia rosa (non era stato vero nulla salvo la disumana fatica) il Giro è finito. Milano ha reso gli onori a tutti, anche il ragazzo fortissimo e candido è stato a lungo acclamato ma non sorrideva più; sembrava, per la prima volta, pensare cose più grandi, più misteriose del Giro. E anche la Bedford bianca, rossa e blu, mentre percorreva adagio Corso Sempione illuminato dalle nubi dorate di giugno, sembrava pensasse, scricchiolasse di pena: e allegra, certo, non era più».
vasco pratolini
Fiorentino (nasce nella città del Giglio nel 1913), della parte più popolare della città, quella San Frediano che così intimamente descriverà nelle sue opere iniziali (Cronaca familiare e Cronache di poveri amanti), Vasco Pratolini
è considerato uno dei padri del Neorealismo italiano. Scrittore, giornalista, professore, collabora- tore di riviste letterarie (Il Bargello e Letteratura), è amico di registi (Luchino Visconti e Michelangelo Antonioni) e uomo della sinistra italiana. Con il poeta Alfonso Gatto si conoscono fin dai tempi del-
la rivista letteraria fiorentina Campo di Marte (1938), cuore pulsante dell’ermetismo italiano, che hanno fondato insieme ad Enrico Vallecchi. Si ritroveranno inviati al seguito del Giro d’Italia del 1947 per i corrispettivi gior- nali, il Nuovo Corriere di Romano Bilenchi e L’Unità di Pietro Ingrao. Pratolini non aveva macchina e chiese quindi ospitalità a quella del partito. Seppur malvolentieri, perché geloso della postazione privilegiata accanto all’autista, Gatto acconsentì a far viaggiare sulla vettura dell’Unità l’amico Vasco. Ne nasceranno cronache dense di epica ciclistica. In uno dei prossimi numeri torneremo
a parlare di questa significativa esperienza raccontando il punto di vista proprio di Alfonso Gatto.
anna maria ortese
Nata a Roma nel 1914 ma vissuta lungamente tra Napoli e Milano, Anna Maria Ortese è stata una scrittrice interessante e prolifica. Inizia a lavorare come impiegata commerciale ma già da giovanissima comincia anche a scrivere facendosi notare da pubblicazioni locali. Nel ’37 pubblica con Bompiani il suo primo libro, la raccolta di racconti “Angelici dolori”, mentre nel ’39, a Trieste, vince i Littorali Femminili della Cultura e inizia a collaborare con importanti quotidiano come Il Mattino, Il Messaggero, Il Corriere della Sera.
Nel 1950 esce il suo secondo libro di racconti, “L’infanta sepolta”, mentre è del ’53 la raccolta di novelle “Il mare non bagna Napoli”, con cui vince il Premio Viareggio. Trasferitasi a Milano, vince nel 1967 l’importantissimo Premio Strega con il libro “Poveri e semplici”. Assidua scrittrice per tutto il resto della vita, muore a Rapallo il 9 marzo 1998 ed è sepolta nel cimitero monumentale di Staglieno.