Si sta preparando il Giro d’Italia del 1912 con classifica a squadre da quattro corridori. Giovanni Gerbi, intuendo il valore commerciale di una vittoria, vuol fare la squadra che porterà il suo nome, la “Ciclo Gerbi”.
Ingaggia quattro assi come Luigi Ganna, Carlo Galetti, Giovanni Micheletto ed Eberardo Pavesi, siglando l’accordo con una stretta di mano. Purtroppo per lui, non aveva fatto i conti con Angelo Gatti, detto “Micio” per via dei baffi che portava, ex-dirigente uscito dalla Bianchi che aveva fondato, ispirato dal nome della madre, quella che sarebbe stata una squadra che avrebbe fatto epoca: l’Atala. Il Gatti era uno che faceva sempre le cose in grande, perché sapeva che per vincere bisognava avere i migliori ciclisti. Ingaggia quindi lo stesso quartetto e non bada a spese.
Salta l’accordo con Gerbi, che alla notizia fa altro che il Diavolo Rosso (il suo soprannome): impreca ai milanesi, a quelli che sarebbero stati soprannominati “i Moschettieri” (Ganna, Galetti e Pavesi) e dà i numeri. A quei tempi Gerbi lavorava a Milano in viale Indipendenza, frequentava gli ambienti sportivi e faceva visite ricorrenti a Eugenio Camillo Costamagna, direttore della Gazzetta dello Sport, che lo ascoltava e aveva un debole per lui. Chiede quindi al Costamagna di pubblicare un bando di sfida ufficiale a Carlo Galetti, fresco vincitore del Giro d’Italia. La posta in gioco è di 10.000 lire, un’enormità per l’epoca. A Galetti non risparmia insulti e a Pavesi stesso manda una lettera di sfida.
Nella lettera Giovanni Gerbi scriveva e tuonava pressappoco cosi: «Vi insegno io a voi moschettieri come si sta al mondo! Galetti imparerà a sue spese che il Capitano della Gerbi è sempre un diavolo. Propongo una corsa a cronometro su trecento chilometri: 10.000 lire di posta».
Il Costamagna fa uscire il bando sulla Gazzetta ancor prima che Pavesi stesso legga la lettera. Le offese sportive non si fanno attendere. Galetti viene definito calcolatore e ciuccia ruote. Ha vinto sicuramente più gare di Gerbi, ma Diavolo Rosso è più popolare e lo stesso Costamagna non nasconde le sue preferenze per lui. Galetti, ferito nell’orgoglio, vorrebbe appendere la bicicletta al chiodo e ritirarsi. Alla fine rifiuta la scommessa, da quel ragioniere e calcolatore che era, anche considerati gli investimenti recentemente fatti per la tipografia di famiglia, la sua adorata Vincenzina e le figliole: rischiare 10.000 lire non era una cosa da prendere in considerazione.
Ma Pavesi, da quell’Avucatt che poi diventerà, senza dire nulla al diretto interessato fa intendere a Costamagna e a Gerbi che Galetti correrebbe per 1.000 lire. D’altra parte la sfida poteva avere conseguenze pericolose per il futuro, ma le offese ricevute, nell’ambiente sportivo pesavano e bisognava rispondere in qualche modo. Anche perché Galetti era forte e resistente nelle lunghe distanze e avrebbe anche potuto avere la meglio.
Si riaprono così le trattative e si discute il percorso, decisamente stronca garretti: Milano, Varese, Brinzio, di nuovo Varese, Como, Erba, Lecco, Bergamo, Coccaglio, Treviglio, Trezzo, Monza, Sesto San Giovanni. In pratica il giro di Lombardia. I due campioni rischiano tutto – reputazione, soldi carriera – partendo a un’ora di distanza l’uno dall’altro su uno spaventoso percorso di 300 km.
Il Carlo Mairani, la Piera Galaschi e l’ischirogeno
Entra a questo punto in gioco Carlo Mairani detto “Il Carleu”. Su di lui non sappiamo poi molto. Poche le notizie a riguardo e di difficile reperibilità. Dal punto di vista ciclistico, si sa che spesso fu in testa al gruppo nella prima decade del XX secolo. Ottenne una sola vittoria, nel 1906, ma si segnalò più volte tra i migliori nelle corse più importanti, dove seppe cogliere qualche buon risultato come il 4° posto nel Giro di Lombardia 1908, dopo Faber, Ganna e Gerbi, il 5° sempre nel Giro di Lombardia del 1905, ed il 5° nel Campionato Italiano del 1906 e 1908, a dimostrazione delle sue discrete qualità in campo nazionale. Prese parte anche a due Giri d’Italia non riuscendo a concluderli. Nel Giro 1909, il primo nella storia, era in buona posizione nella classifica generale, ma nella penultima tappa la Genova-Torino, cadde sul Colle di Nava e dovette ritirarsi.
Le cronache narrano anche che nel 1903 i futuri Tre Moschettieri dell’Atala e il Mairani, alle prime luci dell’alba, partirono da Milano in bicicletta in direzione Marsiglia. Dovevano partecipare ad una corsa di 120 km il giorno successivo. Portavano i colori dello Sport Club Milano. Terminata la competizione su strada se ne tornarono a casa sempre pedalando.
Il Carleu era nato a Milano nel 1883 ma la famiglia si era trasferita a Vigevano subito dopo la sua nascita. Fece in tempo, come Pavesi, a vedere le evoluzioni della bicicletta e a capire che poteva essere un mezzo con il quale cambiare la propria vita.
Tutti dicevano che «l’era propri un malnat». Un uomo senza paura, uno scavezzacollo, amante del rischio e della competizione con un’indole fortificata dalla dura legge della vita e dall’aver appreso l’arte estrema del sapersi arrangiare. Era sposato con Piera Galaschi. Il Carleu con la sua Piera faceva i mercati, e mentre lui andava in giro a fare lo sportman, nella Milano dei primi velocipedisti, lei rimaneva al banco e faceva andare avanti la baracca.
Piera, vigevanese, ormai gravitava nell’area milanese per via degli interessi sportivi ed economici del Mairani, avviati anche grazie al sodalizio con i futuri Tre Moschettieri nato già nelle sfide fuori le mura, in Piazza d’Armi, dove al cosiddetto Club del Granida avevano iniziato a gareggiare i primi ciclisti agonisti.
La Pierina era donna sveglia e di senso comune, e soprattutto da anni conosceva la Vincenzina, moglie del Galetti, ed era diventata sua cara amica. Inoltre, si sa, tra donne ci sono molte confidenze e soprattutto non ci sono segreti.
Ed fu proprio in uno di quei momenti di spregiudicata confidenza, quando la timorosa Vincenzina preoccupata e piangente per l’imminente sfida del marito con il Gerbi, in quanto la posta in gioco avrebbe potuto devastare le finanze della famiglia, che l’Ischirogeno fece la sua apparizione. Vien da chiedersi come mai il Mairani, il Pavesi, il Ganna e soprattutto il Galetti erano diventati cosi amici ed il Mairani stesso fosse sempre a Milano, ma questa è tutta un’alta storia.
Il medicamento miracoloso
«Amica mia, te la voglio proprio raccontare: son tre anni ormai passati e la nostra bambina si era ammalata di una brutta febbre da cui non riusciva a riprendersi. Non si sa che avesse e stava quasi per lasciarci. Il dottore non sapendo che pesci pigliare disse che si poteva provare con l’Ischirogeno, tre cucchiai al giorno da mischiare nel caffè. Dopo tre giorni di quella medicina la bambina è tornata giocare come nulla fosse.
Il Carleu dopo che ha visto il sicuro beneficio, ora ne prende anche lui quando va in crisi nelle gare e un po’ di più quando vuole vincere. Diciamo che lo prende sempre quando va a fare lo sportman. Lo porta sempre con sé in una bottiglietta. Tieni Vincenzina l’ho presa al Carleu, ne ha una bella scorta. La devi dare al Pavesi che sa come usarla. Non dire niente al Carlin che se lo sa non darà il massimo. Lo faccio per il bene che ti voglio mia cara amica e perchè, se il Gerbi dovesse vincere questa sfida, le finanze della vostra famiglia potrebbero mettersi male».
La Sfida
Galetti correva con Bicicletta Dei e Gerbi con la sua Cicli Gerbi. Pavesi avrebbe seguito a bordo di una SPA con il soffietto, accanto all’autista. Dietro c’era la Vincenzina, moglie del Galetti, con accanto Alfredo Focesi, un uomo di Gerbi e futuro patron della Gloria, cognato del Diavolo Rosso, lì per controllare che tutto si svolgesse regolarmente. Altrettanto avrebbe fatto un impiegato di Dei sulla macchina di Gerbi.
Si tirò a sorte e toccò a Galetti partire per secondo. Il giorno della gara pioveva. Galetti sotto la pioggia non andava, era il suo tallone d’Achille. Il Pavesi ficcò su un impermeabile e preparò cibi caldi: riselatte di cui era ghiotto il Galetti, frutta cotta, caffè. Poi affidò tutto a Vincenzina affinché tenesse i cibi al tepore della sua ampia gonna, fece anche dello spirito grasso su quella idea e il Galetti arricciando il naso se la rideva.
Erano tutti emozionati e il Pavesi quel giorno inaugurò una professione che sarebbe stata la sua appena avrebbe appeso la bicicletta al chiodo (l’Avucat in automobile, ma soprattutto direttore tecnico della Legnano per 40 anni). Il Gerbi partì acclamato dalla folla e sicuro della vittoria. Dopo un’ora sotto la pioggia barbellando partì anche il Galetti. Pioveva a dirotto, l’incerato del Galetti si gonfiò e facendo l’acqua come fosse un riscello. «Alé! Carlin alé! Scusciarood ti ha chiamato il Costamagna come se la Gazzetta fosse un giornale di Asti, fagli vedere chi sei, Carlino Alé!». Ma la pioggia distruggeva Galetti e lo bagnava talmente tanto che sembrava un papero nella roggia. «Alé Carlin», continuava il Pavesi, «che gliele diamo sode al sior Diavol». A un certo punto, però, la Vincenzina scoppiò a piangere e il Pavesi la redarguì subito: «Zitta! Se il Carlo ti vede piangere è finita, smonta dalla bicicletta e sale in macchina!».
Il Carlin con la pioggia pedalava male scomposto, duro. Il freddo lo stroncava. Osservatori appostati sul percorso davano i tempi. Ogni tanto la Vincenzina lo chiamava: «Mangia on quaicoss, demoni, fermess on moment!». Ma Galetti così, con la pioggia, non andava, pedalava affannato come non lo era mai stato, cambiando continuamente posizione sulla sella anche dopo 100 km, chiaro segno di difficoltà. Ai primi due punti di controllo era in ritardo, quasi due minuti, ma poi successe che qualcuno a cui nessuno aveva chiesto niente urlò: «È Morta l’Aida: son cinque minuti».
Galetti scoraggiato si avvicinò alla macchina e disse: «ferma che salgo anche io». Allora il Pavesi gridò di fermarla. «Fuori la roba!», urlò rivolgendosi alla Vincenzina. «Vieni qui Carlino», disse a Galetti, che balbettava ed era ansimante. Gli tolse impermeabile, lo asciugo per bene, gli fece cambiare la maglia e a forza gli fece ingoiare riselatte, frutta cotta e infine il caffè con dentro l’Ischirogeno, che chissà cosa credeva che fosse il Focesi.
A questo punto il Pavesi esclamò: «se tu hai hai 5 minuti di ritardo io mangio un topo alla prima fogna che troviamo. Quello era un uomo di Gerbi che era lì per scoraggiarti. Speriamo solo di non trovare chiodi lungo la strada…Ti senti bene ora? Alè, Carlin su da doss!».
Così Carlo Galetti risalì in bici rinfrancato, mordicchiando una coscia di pollo. Ma qualcosa era cambiato, pedalava molto meglio, la terapia psicologica, alimentare e chimica cominciava a dare i suoi frutti. Ai successivi controlli cominciò a recuperare minuti su minuti. Il Carlino stringeva i denti e andava come non mai. Fu un grandioso finale. Costamagna rideva verde appoggiato al palo d’arrivo, Gerbi se l’era già squagliata senza una parola o una stretta di mano. Il cronometro, da parte sua, diceva Galetti vincente con 4′ 40” su Gerbi.
Certo fu che riselatte, frutta cotta e caffè con Ischirogeno un qualche effetto lo avevano pur avuto. Il Pavesi stesso, con la sua terapia psicologica, fu la zampata finale per la vittoria. Ma vien da pensare, che se non ci fossero stati il Mairani e la Piera Galaschi forse non ci sarebbe stata la vittoria di Galetti nella grande sfida. D’altra parte l’Ischirogeno conteneva fosforo, ferro, calce, chinina, coca e stricnina. Si può dire senza ombra di smentita che era una vera bomba. Cibo chimico per la contrazione muscolare, antinfiammatori e potenti stimolanti che ben si sposavano con riselatte, frutta cotta e un po’ di caffè. Galetti, in seria difficoltà, dopo l’assunzione di cibo e del caffè con dentro l’Ischirogeno comincio a pedalare meglio, molto meglio, recuperando minuti su minuti fino alla vittoria finale. Ma fu vero doping? La domanda è lecita ma in realtà non ha risposta, poiché in quei tempi era vero tutto e il contrario di tutto. Erano talmente rudimentali e pericolosi i medicinali disponibili che potevano diventare facilmente dannosi. In qualche modo aiutavano, è vero, ma quei ciclisti erano uomini fuori dal comune per capacità muscolare, resistenza e forza di volontà.
Non esisteva ancora il concetto dello sportivo, per come lo intendiamo oggi noi. Le gare e il ciclismo erano un mezzo di riscatto dalla povertà e dalla fame. Si correva più per soldi che per la gloria e per portare a casa la pagnotta nel vero senso della parola, perché i premi erano non solo in denaro ma anche in generi alimentari. Vero è che anche il fisico dei ciclisti era diverso: uomini robusti possenti e soprattutto con una grande resistenza allo sforzo fisico, geneticamente predisposti alla sofferenza. Il Galetti, lo scoiattolo dei Navigli, era invece un piccoletto tutto muscoli e nervi. Per dirla in termini medici un brachitipo, molto resistente, ma soprattutto un furbo che difficilmente mollava.
Pavesi, grande stratega e psicologo, ne conosceva i lati caratteriali, le capacità tecniche e fisiche, sapeva come stimolarlo nella mente e nel corpo. Sapeva anche che la posta in palio era alta: l’ingaggio all’Atala, l’onore delle cronache, la possibilità di vincere un Giro d’Italia con una squadra forte e con collaudato sodalizio. La sfida cadeva a fagiolo per accrescere la popolarità e le possibilità di maggiori ingaggi. Bisognava vincere, senza se e senza ma. E così fu, grazie anche all’Ischirogeno.
A cura di Paolo Francesco Tosi
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Criterium ducale del mairani
A Carlo Mairani, protagonista della storia raccontata in queste pagine, sarà intitolato un Criterium a coppie, proprio a Vigevano, la sua città. La data sarà sabato 11 maggio con inizio alle ore 18. Il Criterium sarà aperto a tutte le biciclette storiche costruite prima del 1987 e avrà come ingredienti fondamentali la regolarità e l’eleganza. I Partecipanti, infatti, dovranno sfilare per due volte lungo un percorso nel centro storico, in una location d’eccezione, quella della Piazza Ducale.
Lo scopo dell’evento, non è assolutamente agonistico ma si tratterà di un momento di condivisione e di celebrazione della bicicletta come veicolo che sa anche essere icone di stile e testimone delle generazioni passate. Chi volesse ulteriori informazioni, le può trovare sulla pagina Facebook “Criterium Ducale”. La manifestazione ha scopo benefico e il ricavato devoluto per progetti di solidarietà sociale.
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L’Ischirogeno e il Cavaliere Onorato Battista
Agli inizi del secolo, i Farmacisti non erano certamente come quelli di oggi. Erano alchimisti, chimici della prima ora, studiosi e sperimentatori che lavoravano con meno rigore scientifico. Agli inizi del ‘900, nella Napoli da pochi anni annessa al Regno d’Italia, vi era un nome ben noto: quello del Cav. Onorato Battista, considerato quasi un mito non solo per via dell’Ischirogeno ma per tanti altri medicamenti di sua produzione. Costui, farmacista di un certo lignaggio e di sicure abilità di marketing ante litteram (pubblicizzava quasi quotidianamente sul Mattino di Napoli i propri prodotti), aveva sperimentato e posto in vendita l’Ischirogeno, rigeneratore delle forze a base di fosforo, ferro, chinina, calce, coca e stricnina, che anche oggi potrebbe essere considerato una bomba e senza dubbio con una certa attività dopante, ma che allora era destinato a organismi deboli, anemici o linfatici. La straordinaria proprietà medicamentosa dell’Ischirogeno era che curava ogni cosa, andava bene un po’ per tutto: sostanzialmente se eri giù, ti tirava su. La vecchia fabbrica di Ischirogeno era sita a Napoli, in via Ponte della Maddalena al 133, mentre la vendita era alla Farmacia Inglese del Cervo, sita in Corso Umberto 119. Oggi al posto della farmacia c’è un ortolano, ma all’ultimo piano dell’edificio si intravvede ancora il residuo vestigiale con il nome del vecchio esercizio. L’Ischirogeno fu premiato all’esposizione generale italiana del 1898 con la massima onorificenza ed ebbe anche l’encomio del presidente del consiglio superiore della sanità del Regno d’Italia.
A un certo punto accadde che il caffè con l’Ischirogeno divenne una bevanda molto usata nel ciclismo. I corridori conoscevano già l’effetto della stricnina come aiuto potente ma allo stesso tempo pericoloso, perché era disponibile in granuli e doveva essere disciolta in alcool. Era difficile calibrarne il dosaggio. La bottiglia dell’Ischirogeno, che conteneva non solo stricnina ma altre sostanze di sicuro effetto eccitante, era già in commercio ed era di più facile gestione. Quello che si sapeva di certo anche allora, sulla stricnina, è che a piccole dosi accresceva la sensibilità neuromuscolare ma ad alte dosi poteva essere letale. In medicina, durante la prima metà del ‘900, bassi dosaggi di stricnina erano usati come stimolanti, lassativi o come rimedi per disturbi dell’apparato digerente. Fu grazie alle sue proprietà stimolanti che cominciarono quindi a utilizzarla anche in ambito sportivo, anche se si sapeva che un abuso poteva provocare convulsioni e morte. In medicina, proprio a causa della sua tendenza a causare convulsioni, l’uso fu in seguito abolito.
L’utilizzo di queste sostanze doveva essere accompagnato sempre all’introduzione di grandi quantità di alimenti, allo scopo di diluire la sostanza e di perdonarne i possibili sovradosaggi. Ecco così spiegata la fame atavica dei ciclisti, che erano in grado – o forse persino obbligati – di assumere grandissime quantità di cibo durante una competizione. Questi eccitanti aumentavano la prestazione ma allo stesso tempo il consumo di energia. In pratica acceleravano in modo importante il metabolismo e pertanto l’organismo aveva la necessità di non rimanere senza riserva energetica. Si spiegano così le crisi di fame che portavano al collasso e alla perdita dei sensi o le altalene di prestazione di alcuni atleti quando esageravano con i dosaggi, cosa che poi portava agli inevitabili ritiri.