Freddo. Un freddo tremendo.
Il 1956 sarà ricordato come una delle annate più fredde nella storia. Mia Martini lo canterà al mondo al festival di Sanremo con la sua famosissima canzone “La nevicata del 56”. In piazza San Pietro i bambini pattinavano sul ghiaccio e anche la guerra, in quegli anni, era “fredda”, con USA e URSS impegnati in un duro confronto sul piano militare, spaziale, tecnologico, ideologico, psicologico e sportivo e con l’ombra della catastrofe nucleare costantemente sullo sfondo. Il CIO, proprio a causa della situazione internazionale, decide di assegnare i giochi olimpici a un continente neutro, l’Oceania. È così le Olimpiadi si disputano Melbourne, dove Ercole Baldini vince la prova in linea e Leandro Faggin quella del chilometro da fermo.
Freddo, nel ’56. In quell’inverno nelle campagne italiane la stalla, che fino ad allora era considerata il punto d’incontro rurale, cominciava a perdere quel significato di raduno serale, anche perché, nelle case il riscaldamento domestico stava diventando di uso comune. L’Italia era alle porte di uno straordinario boom economico e sulle strade comincia l’invasione della Fiat 600. La televisione, però, era ancora un giocattolo costoso e la trasmissione “Lascia o Raddoppia”, in quell’anno, radunava nei bar e nelle sale cinematografiche i telespettatori per seguire Mike Bongiorno e il suo quiz a premi.
Dal punto di vista sportivo, il calcio iniziava a soppiantare il ciclismo nel cuore dei tifosi, forte anche del fatto che lo stadio fosse un posto comodo da raggiungere. La Fiorentina vince il suo primo campionato di Serie A per poi andare a perdere, l’anno successivo, la finale di Coppa dei Campioni contro il Real Madrid di Di Stefano e Gento. Nel mondo del ciclismo, Gino Bartali ha appena appeso la bicicletta al chiodo mentre Fausto Coppi, che nel ’56 veste la nuova maglia della Carpano Coppi, non è più quel corridore imbattibile che tutti ricordavano. Da ricordare, però, ci sarà una storia di gelo, nervi, biciclette ed eroi: la tappa del Bondone al Giro d’Italia di quell’anno.
UN GIRO DI PASSAGGIO
Il Giro parte il 19 maggio del 1956 e, nella prima frazione, vede vincitore al traguardo di Alessandria il velocista Pierino Baffi. Sarà poi Alessandro Fantini a tenere la maglia rosa per nove tappe fino a Livorno. Fausto Coppi, in quel Giro, rientrava alle competizioni dopo aver contratto il tifo verso febbraio e, alla sesta tappa, cade alle porte di Ferrara, nel corso della frazione Mantova-Rimini. Distorsione tibio-tarsica sinistra e conseguente infrazione rendono il ritiro inevitabile, e così la corsa rosa perde un grande personaggio che, al di là di tutto, ha sempre avuto un proprio seguito quasi come una figura religiosa.
C’è pure Fiorenzo Magni, in questo Giro, che seppur trentaseienne è sempre un gran bel personaggio. Lui è il leone delle Fiandre, ha già vinto tre Giri d’Italia ed è il campione in carica che in quel giro sta lottando per la classifica. Magni, però, cade clamorosamente nella tappa di Grosseto e si procura una lussazione alla spalla. Non si ritira ma decide stoicamente di continuare, commentando quei giorni, molto tempo dopo, con queste parole: «Al Giro del ’56 sono caduto nella discesa di Volterra e mi sono fratturato la clavicola. “Non puoi partire”, mi dice il medico. Io lo lascio parlare e faccio di testa mia: metto la gommapiuma sul manubrio e corro la crono. Poi supero gli Appennini. Ma provando la cronoscalata di San Luca mi accorgo di non riuscire nemmeno a stringere il manubrio dal dolore; allora il mio meccanico, il grande Faliero Masi, decide di tagliare una camera d’aria, me la lega al manubrio e io la tengo con i denti, per non forzare le braccia. Il giorno dopo, nella Modena-Rapallo cado di nuovo e mi rompo anche l’omero. Svengo dal dolore. Sono sulla lettiga quando riprendo coscienza e ordino a chi guida l’ambulanza di fermarsi. Mi butto giù, inseguo il gruppo, lo riprendo fino all’arrivo».
Fiorenzo Magni terminerà incredibilmente il Giro del ’56 al secondo posto in classifica generale. In quella tappa fulminea che andava dal centro di Bologna al Santuario di San Luca – quella della famosissima foto di lui con la camera d’aria tra i denti – vide vincitore Pasquale Fornara, che nell’occasione conquisterà anche la maglia rosa. Il corridore di Borgomanero, sicuramente meno blasonato dei vari Coppi, Bartali e Magni, non era però era il classico Carneade di turno. Fornara era reduce dalla vittoria del Giro di Romadia e aveva fatto suoi già due Giri di Svizzera, tanto che dopo sette giorni in maglia rosa, alla fine della ventesima tappa del 7 giugno, era ormai il favorito d’obbligo, avendo controllato agevolmente la tappa dello Stelvio vinta da Cleto Maule sotto un sole estivo e un cielo azzurro quasi surreali.
L’indomani a Merano si doveva affrontare la ventunesima tappa che arrivava al monte Bondone, 242 chilometri e cinque montagne da passare: passo Costalunga, passo Rolle, Brocon e Gobbera, tutti sterrati, per affrontare poi l’ultima salita, il Bondone, la montagna di Trento. Questa tappa verrà ricordata come uno dei momenti più drammatici nella storia del ciclismo, susseguita poi da polemiche, insinuazioni e malelingue che fanno discutere ancora ai giorni nostri.
A Merano comincia a piovere già dalla notte, al mattino, la temperatura è di 5 gradi e il vento di tramontana impedisce addirittura l’allestimento delle tende mobili al villaggio. I direttori sportivi chiedono l’annullamento della tappa ma Vincenzo Torriani fiuta il colpaccio, l’epica, quasi un momento atteso nella fase finale di un Giro che rischiava di rimanere anonimo per l’assenza di tanti campioni e orfano dei tifosi degli anni migliori… la tappa si correrà!
CONDIZIONI PROIBITIVE
Alla partenza i ciclisti si trovano fin da subito a pedalare scivolando su strade impraticabili e viscide ma Torriani dice che la strada è sgombra e quindi si deve proseguire. Il gruppo, però, è impreparato a quelle intemperie e a parte qualche mantellina di plastica i ciclisti non sono attrezzati a queste condizioni meteorologiche. Si sta davvero rischiando il peggio.
Fornara – la maglia rosa – deve difendersi già dalla prima salita dagli attacchi di Bruno Monti, che corre per i colori dell’Atala e che sta lottando anche lui per la classifica, ma da lontano, sul Costalunga, attacca inaspettatamente un lussemburghese che si trova lontano in classifica e che risponde al nome di Charly Gaul.
È lontano dai primi, anzi lontanissimo – più di 16 minuti di ritardo lo separano da Fornara – per cui tutti pensano che sia un avventore di giornata e lo lasciano andare, anche perché imprime un ritmo impossibile per tutti e nessuno sarebbe riuscito a stargli dietro.
Dietro al lussemburghese la battaglia per la classifica si fa dura. A contendersi tappa e maglia ci sono Cleto Maule, vincitore della tappa alpina il giorno prima, il già citato Bruno Monti e il corridore di casa Aldo Moser. Intanto il freddo e la pioggia battente non danno tregua anche sul passo Rolle, dove Gaul continua la sua corsa nel cuore della tregenda. Quel tempo da lupi però è in continuo e costante peggioramento. In discesa inizia addirittura a nevicare e le cadute sui tornati sono innumerevoli. La tappa già durissima di suo, con 5 colli da scalare, diventa un autentico calvario e i ciclisti avanzano come automi nella tormenta. Bruno Monti ne approfitta per scatenare la battaglia ma la sua mossa è forse prematura perché l’arrivo è ancora lontano e la temperatura intanto continua a scendere.
La strada che porta dal Gobbera al Bondone è davvero insidiosa. Nelle vallate tra un colle e l’altro in certi tratti ci sono anche 30 centimetri di neve lungo la strada. In gruppo corre voce che un ciclista sia morto congelato ma ovviamente non è vero. Di vero c’è che i colpi di scena si susseguono uno dopo l’altro. Mario Giumanini, direttore sportivo di Fornara, si sgola per incitarlo ma è una tattica deleteria perché non si accorge che avrebbe dovuto fargli cambiare quella maglia ghiacciata. Pasqualino a un certo punto inizia a congelarsi e il “Giuma” comincia a piangere temendo il peggio. La maglia rosa è costretta al ritiro e viene portata in fretta all’ospedale. Mario Giumanini dopo quest’episodio chiuderà la carrierea da direttore sportivo.
Nino De Filippis, che generosamente stava inseguendo Gaul, a un certo punto sterza improvvisamente a causa della strada ghiacciata e finisce in un fosso. Anche lui rischia il congelamento e viene ricoverato, privo di sensi.
Nell’ultima salita che porta al traguardo del Bondone c’è una vera e propria tormenta. Le folate di vento sono violentissime e ormai il bianco della neve è il colore predominante. Il lussemburghese intanto è una forza della natura. Magni e Fantini si battono come leoni in quanto intravedono la possibilità di ritornare al vertice della classifica, il loro coraggio è commovente. Dietro di loro la corsa ormai è alla deriva e Charly Gaul, dopo essere transitato solo in tutti i gran premi della montagna, si presenta solitario al traguardo ma non può festeggiare, perché perde i sensi subito dopo aver passato la linea d’arrivo. È passata alla storia la foto che lo ritrae sorretto dai due poliziotti, boccheggiante, con la testa reclinata e l’occhio sbarrato, portato a braccio al vicino rifugio sul Bondone. Learco Guerra, direttore sportivo della Faema, lo immerge in una tinozza di acqua calda e gli toglie la maglia talmente ghiacciata e attaccata alla pelle da farlo sanguinare.
Dietro però la situazione è più drammatica che mai, i distacchi sono abissali, qualcuno si rifugia in osteria e si attacca alla bottiglia della grappa per trovare un po’ di calore. Molti corridori si versano brodo e thè bollente sulle gambe, altri entrano in farmacia per chiedere aiuto, molti si sono rifugiati nelle baite e nelle case lungo il percorso. Bisognerà attendere 7’,44” per vedere sbucare dalla nebbia e dalla tormenta il secondo arrivato, Alessandro Fantini, e dopo 12’15” l’indomito Fiorenzo Magni, che risale al secondo posto in classifica ma a 3’27” da Gaul. Per tutti gli altri i distacchi sono abissali. Con quell’impresa, Charly Gaul ha vinto la tappa del Bondone, preso la maglia rosa e conquistato così quel Giro d’Italia. Le rimanenti due tappe di San Pellegrino e Milano saranno quasi una passeggiata per il lussemburghese e per quel che resta del gruppo. 44 furono i ritiri il quel 8 giugno, degli 87 partiti 242 chilometri prima.
I RETROSCENA
Ma come andarono realmente le cose quel giorno? Molte sono le malelingue a proposito di alcune furberie che si sarebbero consumate in quella tappa maledetta. Anni dopo, Nino De Filippis che in quel Giro era il capitano della Bianchi, racconterà che se avesse ricevuto un’assistenza adeguata, con bevande calde e indumenti asciutti avrebbe potuto vincerlo lui quel giro. Pino Favero, anche lui in forza alla Bianchi, rivelò che sul camion dei ritirati c’era un corridore importante che figurerà poi nella classifica di quel giorno e quel ciclista si sarebbe fatto lasciare ai piedi dell’ultima salita senza aver pedalato il Brocon e il Gobbera sotto la tempesta. Favero quel nome non volle mai rivelarlo.
Sono passati 64 anni, molti di quei protagonisti non ci sono più, e forse è meglio lasciare perdere i dettagli più scabrosi, i sussurri e le dicerie di quel giorno, continuando a celebrare questa tappa epica e leggendaria che ha segnato la storia del ciclismo.Il Bondone del resto è una montagna maledetta, così maledetta che anche l’anno dopo fu clamorosamente decisiva per Charly Gaul, questa volta però, in negativo. Nel ’57, da favorito, si fermò a fare la pipì. Il gruppo se ne accorse, lo attaccò e lui per rientrare si sfinì letteralmente crollando proprio sul Bondone ancora con la complicità di Torriani.
Il patron del Giro, fiuta un’altra volta il colpo a sorpresa, l’imboscata, e ordina il blocco delle ammiraglie impedendo alle vetture di stare fra il primo e il secondo gruppo. Sono una trentina i corridori all’attacco, tutti collaborano, mentre dietro Gaul – furente – è aiutato soltanto dai suoi e l’inseguimento diventa fatale. Quel giro lo vincerà Gastone Nencini, di cui vi parliamo in questo stesso numero.
LA GIORNATA DI ALDO MOSER
A proposito di storie maledette, c’è anche quella di un corridore, il più atteso di quel giorno, il ciclista di casa: Aldo Moser, uno dei favoriti alla partenza in quel fatidico 8 giugno. Più degli avversari e delle intemperie lo sconfisse il troppo amore di… mamma Cecilia. Aldo dirà qualche tempo dopo in un’intervista: «In classifica ero terzo, un minuto e mezzo da Pasqualino Fornara, a uno da Cleto Maule, mio compagno di squadra nella Torpado. Il giorno prima a Merano gli avevo tirato la volata perché vincesse». Aldo Moser era arrivato quinto nel Giro del 1955 al suo esordio tra i professionisti. Gino Bartali lo aveva designato come suo erede, cosi simile a lui anche caratterialmente. Il terzo posto prima del tappone sembrava il trampolino ideale per lo scalatore contadino. Invece, già di prima mattina, a Merano pioveva e nell’albergo della Torpado era scoppiato l’uragano. Moser non trovava le sue scarpe da corsa. La sera prima era arrivata da Palù mamma Cecilia a salutare il figlio campione e prima di tornare a casa aveva stipato in valigia tutto quel che aveva trovato da lavare. Anche gli scarpini, il primo paio e quello di riserva: «Ho dovuto farmeli prestare da un compagno. Nessuno calzava il 42, ne ho trovato un paio 44. me li prestò Gilberto Dell’agata, Entravano nel puntapiedi, ma la tacca nella suola non combaciava con il perno del pedale».
Dopo frenetiche telefonate all’albergo Roma, quartiere della Torpado per la sera a Trento, il titolare Mario Borlotti, amico di tutti i corridori, prese la Citroen color grigio panna e volò a Palù: «Si fece dare gli scarpini che erano ancora nella valigia e aspettò il Giro a Predazzo. Io avevo fatto più di 80 chilometri, con in mezzo il Costalunga, massacrandomi le gambe. Mi fermai, cambiai le scarpe, non ci misi molto ma gli altri erano già scappati». Lungo il Rolle, dove la neve imbiancava anche la strada, Moser rimontò decine di corridori e altri sulla Gobbera e sul Brocon: «Giù nella Valsugana – mi dicevo – andrà meglio, invece pioggia e vento erano ancora più forti».
A Marter, trovò l’ammiraglia: «Chiesi thè caldo, mi dissero solo che Maule si era ritirato. Intanto Gaul continuava ad avvantaggiarsi in salita, in cima si fermava, cambiava la maglia, metteva la mantellina e si faceva raggiungere per non faticare da solo in pianura. Pensava solo alla tappa? Il suo ritardo in classifica era enorme».
Poco sopra Sardagna era crollato in un fosso Fornara. Moser, dopo nove ore di corsa, si trovava virtuale maglia rosa. Ma a Candriai tensione e gambe massacrate gli calarono come una cappa di piombo nella testa. Solo il gran cuore gli permise di trascinarsi al traguardo: «Decimo, con davanti gente che avevo sorpassato e non più rivisto, che tanti non avevano visto passare da Trento. Mi misero le mani nell’acqua bollente e non sentivo nulla».
Alla sera Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello rinunciarono, «per rispetto ai corridori», al loro show TV “Giro a segno”. Mamma Cecilia aveva passato ore nella chiesa di Palù, chiedendo alla Madonna del Carmine che il figlio non si facesse male e le perdonasse il furto degli scarpini commesso per troppo amore: li aveva portati via intenzionalmente nella speranza di evitare ad Aldo quel calvario.