Nell’immediato dopoguerra Orio Vergani non segue per qualche anno il Giro e il Tour.
Al suo posto sono inviati prima Indro Montanelli e poi Dino Buzzati. A differenza di Pratolini che è cronista occasionale, soprattutto sportivo, Buzzati è giornalista di professione. È stato corrispondente dal Golfo della Sirte durante la Seconda Guerra Mondiale ed è arrivato al Giro dopo essere stato a Superga dove, il 4 maggio 1949, avvenne l’incidente aereo in cui morì il Grande Torino. Rispetto a Pratolini, grande conoscitore delle corse, Buzzati ammette fin dall’inizio di non aver mai visto una gara ciclistica su strada: «Per un complesso di circostanze probabilmente legate ai capricci del destino e che sarebbe ormai vano recriminare, colui che scrive oggi, cronista al seguito del Giro d’Italia, non ha mai visto una corsa ciclistica. […] Parecchie cose, non moltissime, chi scrive ha visto correre, in un modo o nell’altro sopra la superficie del mare e della terra; mai però i grandi ciclisti in gara sotto il sole, con un numero attaccato alla schiena, i tubolari a tracolla e la faccia ingessata dalla polvere».
SCENARI FANTASTICI
In Buzzati la “doppia anima”, l’essere insieme scrittore e giornalista, è un elemento che in queste cronache s’intravede e prende corpo. L’uomo Buzzati, innamorato dei boschi e delle montagne della sua terra, è ‘costretto’ nel Buzzati professionista, sorta di maschera necessaria, ma non troppo amata, a vivere in città. Là dove il giornalista trova in Milano la sua razionalità, il suo contatto con il reale e con la storia, lo scrittore si sente in gabbia, e si rifugia nel suo mondo fantastico per ‘sopportare’ questa situazione (ed ecco che nella redazione del Corriere nascono opere come Il Deserto dei Tartari). Al Giro, il fantastico di Buzzati si avvicina sempre di più alla cronaca, alla quotidianità.
La cronaca si trasforma presto in favola, bastano infatti tre nuvole per divagare: «una giornata splendida pareva. Ma che fanno quelle tre nubi nere a forma di piva, sdraiate sopra Monte Pellegrino?».
Temi, ambienti e personaggi vengono con naturalezza trattati sia nella produzione giornalistica che in quella letteraria, spesso parallelamente. Alle volte le due forme si intrecciano, altre sono in contrappunto con le situazioni narrate. La metafora può apparire all’improvviso, per dare una visione d’insieme più ampia e originale al quadro comune: «Un sentimento difficile a dire, una specie di tensione degli animi, pietà, stupore di fronte a quel duello disperato, passò sulle valli. Il vecchio campione riuscirà a salvarsi? O era questa l’ora del suo destino? Suonò una tromba che gli echi delle rupi ripercossero. Era il corno di un motociclista portaordini eppure sembrò che provenisse da qualche solitario dio della montagna che desse il segnale».
Dopo i primi articoli introduttivi, sia per il lettore sportivo poco avvezzo allo stile di Buzzati, sia per il cronista che va alla scoperta di un mondo nuovo, le cronache acquistano un ritmo molto spedito, quasi a riprodurre su carta il veloce passaggio della carovana lungo la strada. Mentre le cronache di Pratolini possono essere assimilate ai capitoli di un romanzo, per Buzzati l’impressione è più quella di una raccolta di novelle, o capitoli di una favola (non manca l’unitarietà) dal tema ciclistico.
Buzzati sviluppa la ricerca delle metafore, come fa Pratolini con il Circo Barnum (data la mancanza di vera cronaca sportiva nelle prime tappe). Ecco allora che lo scrittore si sostituisce presto al cronista e si lancia in novelle quotidiane. Ai corridori, alla cronaca sportiva, il narratore lascia ben poco spazio. Egli segue un suo personale schema, a cui il Giro offre una grande occasione di adattabilità.
La tensione dell’attesa, la definizione sempre più attenta dei contendenti, fino a “quel preciso momento” che risolverà la battaglia sono elementi caratteristici della scrittura di Buzzati. Lo scontro sportivo è ovviamente tra Coppi e Bartali, e sarà il tema portante per tutto il Giro. I due si controllano, si annullano vicendevolmente, come hanno già fatto in tante gare (e solo un exploit di uno dei due può fare la differenza). Questa ‘tensione d’attesa’, dello scontro sempre rimandato, si addice molto al Buzzati de Il deserto dei Tartari. Come anche la minaccia che l’irreparabile Tempo esercita su Bartali, il campione che si sta avviando sulla strada del tramonto.
Una prima scossa è data nella tappa di Napoli, in cui Coppi attacca e Bartali deve arrancare per rientrare. Buzzati delinea Bartali, un po’ come aveva chiuso Pratolini due anni prima, definendolo il “vecchio delle Montagne”: «Può darsi che in mezzo a questi campi così felici si decida il Giro; e si spezzi un cuore. Bartali, vecchio leone, è questo il giorno che presto o tardi doveva venire, è questa l’ora tua suprema dopo la quale comincia l’ultimo crollo della giovinezza? Si è rotto l’incanto proprio qui, su un miserabile colle che misura appena 585 metri? Il tuo genio fedele che finora ti scortava, trascinandoti alla gloria, non risponde più alle tue chiamate? Sei diventato uno come gli altri?».
Poi, il due giugno, arrivano le montagne. La lunga attesa sembra finita. Stavolta ci sarà battaglia, i due contendenti non possono più nascondersi. Lo scrittore, che finora ha testimoniato l’Italia e intrattenuto il lettore, cede temporaneamente la penna al cronista. Apparentemente, perché, ancora una volta, c’è un motivo per divagare con la fantasia sul paesaggio circostante. Buzzati è nato a Belluno, e da sempre ama le montagne, maestose e silenziose. Alpinista per nascita e vocazione, non nasconde questa sua passione neanche nel suo primo libro: Bàrnabo delle montagne.
Le montagne sono parte integrante del suo mondo interiore e della sua fantasia, e lo “seguiranno” anche dopo il suo trasferimento in città. Esse sono per lui “giudici enigmatici”, che danno sempre una sentenza, un giudizio, sull’uomo.
Quel due giugno l’attacco di Coppi al quale, di nuovo, Bartali non sa rispondere immediatamente. La giornata è veramente da tregenda: «E il bosco era diventato nero. E nere le nuvole, tutte sfrangiate di sotto. Di Dolomiti ogni tanto qualche selvaggia rocca, tra le nebbie. Qualcosa gli punzecchiò la faccia e le cosce. Grandine. Tempesta sulle montagne. A poco a poco la scena e la battaglia divennero potenti. I severi abeti fuggivano via ai lati, tutti sghembi per la velocità. Fango. I freni cigolavano come gattini che chiamavano la mamma. Non c’era anima viva. Niente altro che suono delle biciclette. Il ticchettio furioso della grandine e quello dello stridio dei freni».
Nonostante il pesante ritardo, Bartali non è ancora sconfitto. Così lo vede anche Buzzati, che il giorno dopo gli dedica un articolo dal titolo: Non fa per lui la parte del vinto. Nuovamente, come era già successo con Pratolini e Gatto, Bartali ispira il cronista, per la sua dignità, per il suo non arrendersi mai, neanche davanti all’evidenza. «Non piangete dunque per il campione sconfitto, è prematuro. Non compiangetelo, non fatene un eroe crepuscolare; non mandategli messaggi di conforto. Non ne ha bisogno».
DUELLO FINALE
Ciò è la prefigurazione di quello che sarà lo scontro finale sulle Alpi. Di nuovo le montagne sono chiamate ad esprimere un giudizio: «Attento, Bartali. Il pubblico fa già la coda agli ingressi della Corte. I più celebri avvocati hanno indossato le solenni toghe, le travolgenti arringhe sono pronte persino nelle virgole. I giudici, cioè le montagne, siedono enigmatici e il loro solo aspetto intimidisce».
La notte prima Buzzati detta l’articolo dal titolo: “Suprema sentenza oggi sull’Isoard”. Ed è qui, non sulle Dolomiti a lui tanto care, ma comunque sulle montagne, che Buzzati realizza la sua metafora più grande e importante di questo Giro d’Italia: Coppi e Bartali come Achille ed Ettore.
Ecco la battaglia, e subito è chiaro che per Bartali è la sconfitta: «La vittoria si pose al fianco di Coppi fino dal primo duello. In chi lo vide non ci fu più dubbio. Il suo passo su quelle maledette aveva una potenza irresistibile. Chi lo avrebbe fermato?».
Quattro sono le vette da scalare, l’ultima l’Isoard: «Ecco i fantastici gradini dell’Isoard che toglierebbero il fiato a un’aquila e si conchiudono in un anfiteatro di ghiaie a precipizio con torrioni di rocce gialle di aspetto umano». I minuti si accumulano sulle spalle del ‘vecchio guerriero’, quasi sei al Monginevro, quasi otto al Sestriere, dodici allo stadio di Pinerolo. La sentenza è stata emessa.
Buzzati appare come estasiato dalla gara e cita, forse a memoria, alcuni brani dell’Iliade: «L’auree bilance sollevò al cielo – il grande Padre, e due sorti entro vi pose […] le librò nel mezzo, – il duce troiano il fatal giorno – cadde, e ver l’Orco declinò».
Contro il volere degli dei, contro il logorio del tempo, anche Bartali, come Ettore, combatte strenuamente, ma invano. Come Gatto, che aveva usato gli eroi omerici come il più classico rimando per il duello tra i campioni, senza per altro sviluppare a fondo la similitudine, Buzzati pone la stessa metafora al centro della sua cronaca: il giovane Coppi, che vince sul vecchio Bartali, proprio come il giovane Achille aveva trionfato su Ettore.
Buzzati, come prima di lui avevano fatto Pratolini e lo stesso Gatto, mostra solidarietà verso l’Ettore/Bartali. Per lui, come succedeva per gli scrittori, la figura del vinto, ma indomabile, s’avvicina ai suoi personaggi, e qui a Bàrnabo, l’antieroe. È il vinto che attrae Buzzati, più del vincitore. Bartali, così scontroso e burbero nella realtà, ha ispirato gli scrittori maggiormente di Coppi. Coppi, immane icona del grande eroe sportivo, appare quasi in lontananza, l’intoccabile e l’inavvicinabile.
Bartali, perdendo, perde anche quest’aurea d’intoccabile e riacquista la sua umanità. Un’umanità più semplicemente raccontabile da queste penne illustri; un’umanità maggiormente vicina a quella dei personaggi dei loro racconti e a quella dei lettori dei suoi articoli. Un Bartali sconfitto può ricordare la sconfitta italiana in guerra, ma è solo un’occasione, un momento. Non è una sconfitta definitiva, ed è quindi aperta la possibilità di risollevarsi, per lui e per la Nazione.
il kafka italiano
Nato a San Pellegrino di Belluno nel 1906, Dino Buzzati è stato uno scrittore creativo e poliedrico: scrittore, giornalista, pittore, drammaturgo, librettista, scenografo, costumista e poeta sono i ruoli a cui ha prestato la propria penna. Autore di romanzi surreali e immaginifici, fu per questo definito il Kafka italiano. Tra le sue opere più note, ricordiamo Bàrnabo delle Montagne (1933), Il Segreto del Bosco Vecchio (1935) e Il Deserto dei Tartari (1940), il suo romanzo più conosciuto.