Per scoprire i rapporti tra la Olivetti e il ciclismo bisogna risalire alla fine dell’Ottocento, quando l’ingegnere Samuel David Camillo Olivetti, fresco di Laurea a Torino nel 1891, discusse con il professor Galileo Ferraris una tesi in Ingegneria Industriale avente per argomento la dinamo rotante.
In quegli anni si passava dalla forza motrice del vapore a quella prodotta dall’energia elettrica. Camillo, che si firmò sempre con questo nome, voluto dal padre in onore dello statista Camillo Benso Conte di Cavour, sposò questo progetto e al fianco dello stesso Galileo Ferraris si trasferì negli Stati Uniti.
Durante quel periodo californiano frequentò l’università di Palo Alto. Essendo l’Università fuori mano, decise di acquistare un biciclo per i suoi spostamenti. Quella strada che Camillo percorreva quotidianamente divenne nel 1970 la prima pista ciclabile al mondo, con segnali dedicati e un ponte riservato alle due ruote. Come si legge nella sua corrispondenza, Camillo acquistò una “splendida macchina da corsa di seconda mano, pagandola 80 dollari”. Fu un’ottima offerta, ma il difetto stava nei freni e alla prima uscita, inforcata una discesa, cadde rovinosamente. Riportò solo qualche abrasione, ma il “Bucefalo” – così lo definì dandogli il nome glorioso del cavallo di Alessandro Magno – si rovinò parecchio. Fece riparare quel mezzo e, naturalmente, provvide a migliorarne il sistema frenante.
Camillo approfittò del tempo libero a disposizione per conoscere le bellezze dell’America del Nord. Visitò, pedalando in lungo e in largo, la regione dei grandi parchi. Dopo quei viaggi, visto lo stato in cui si era ridotto il suo mezzo di trasporto, trovandosi a Chicopee Falls in Massachusetts, si recò alla ditta Overman per l’acquisto di una nuova bicicletta. Dopo avere visitato la fabbrica, accolto benevolmente dal titolare, Albert Overman, che gli concesse un notevole sconto, uscì dai cancelli con una Victor nuova di pacca. L’aveva acquistata per 35 dollari! Evidentemente fu soddisfatto dell’acquisto, che aveva portato con sé sul piroscafo per il rientro in Italia, perché, dimenticate le spensieratezze giovanili, proseguì con la sua attività imprenditoriale e insieme agli ingegneri Dino Gatta e Michele Ferrero, suoi ex compagni universitari, fondò una società per l’importazione e la commercializzazione nel nostro Paese dei due prestigiosi marchi statunitensi: le macchine per scrivere Williams e, appunto, le biciclette Victor.
ISPIRAZIONI AMERICANE
La ditta Overman, con la concorrente Pope, era leader sul mercato americano e fu attiva dal 1882 al 1900. Nei suoi tempi migliori dava impiego a 1400 operai e produceva oltre 80.000 velocipedi all’anno. Erano gli anni in cui i bicicli conquistavano il mercato americano e anche i grandi scrittori si facevano artefici del successo di questi mezzi ancora pericolosi. Mark Twain, in un saggio di otto pagine – “Domando il biciclo” – concludeva con una frase che fece epoca: «Acquistate un biciclo, non ve ne pentirete, se sopravvivrete». Incredibilmente alla fine del secolo, per una crisi del mercato e per alcuni titoli gonfiati in Borsa, la Overman dichiarò bancarotta e nel 1900 svendette il residuo di produzione a costi del 40%. Con quelle biciclette d’oltre oceano, comunque, iniziò il connubio tra Olivetti e il ciclismo.
I tre soci, Gatta, Ferrero e Olivetti, negli Anni ’90 dell’Ottocento ottennero dalla Overman Wheel Company Victor Bicyles la concessione all’importazione di quelle eleganti e funzionali biciclette nel nostro paese. La ditta statunitense aveva filiali a Boston, Springfield, New York, Chicago, Philadelphia, Denver, Detroit, San Francisco, Los Angeles e Portland. L’ufficio di rappresentanza degli ingegneri originari di Ivrea aveva sede a Torino, in un’elegante palazzina in via Cernaia 11. Con grande capacità imprenditoriale, i tre soci eporediesi, per il lancio della bicicletta sul mercato italiano, seppero sfruttare moderni manifesti in stile Liberty, degni di far parte solo essi di una collezione.
Il problema della commercializzazione delle biciclette Victor era legato al loro costo, quasi proibitivo. Il modello da turismo per uomo e per donna costava, dopo il trasporto in Italia e lo sdoganamento, quanto un elegante appartamento nella metropoli torinese, 625 lire. Vista la situazione, dopo un periodo di riflessione, Camillo iniziò la costruzione della fabbrica in mattoni rossi a Ivrea, vicino alla ferrovia, che sarebbe diventata celebre. Lasciando nello sconforto i soci Gatta e Ferrero, decise l’abbandono del progetto per la scelta verso la produzione di strumenti di precisione e, successivamente, di macchine per scrivere. Visto il successo, la scelta fu vincente.
Anche se gli anni passavano, la passione per due ruote non abbandonò mai Camillo, che usava quel mezzo per i suoi spostamenti in città per recarsi al lavoro. A proposito dell’amore per le due ruote, vale la pena di ricordare un curioso aneddoto, riferitoci dal pronipote Matteo Olivetti. A cavallo fra le due guerre, ad accogliere un gerarca fascista alla stazione di Ivrea, Camillo inviò un elegante auto nera, che lui stesso seguì in bicicletta. Questo anche per evitare di sedersi accanto al politico, di cui certamente non condivideva le idee. Con le due ruote seguì l’auto dell’illustre ospite. Era un’epoca in cui la diffusione della bicicletta non era certo quella che avrebbe avuto negli anni a seguire. Anche questo modo di muoversi, ancora prima che nascesse la più moderna filosofia a indirizzo ecologico e ancora prima della lotta all’inquinamento, conseguente anche all’uso smodato dei mezzi di trasporto, dimostrava la modernità delle idee e dei comportamenti del personaggio Camillo Olivetti.
Seppure romanzato, pare che anche l’incontro fra Camillo Olivetti e la sua futura moglie, Luisa Revel, sia legato alle due ruote. Imbattutosi nella ragazza che passeggiava con una amica lungo un viale, la raggiunse e le si piazzò davanti, dopo avere bloccato la bicicletta con il freno a tampone, rischiando sicuramente il ribaltamento. In un attimo le chiese la mano. Quella spericolata manovra colpì nel segno la timidissima e riservata figlia di un pastore protestante. Non passò un anno e i due convolarono a nozze.
Peraltro anche il figlio Adriano, che gli era succeduto nella conduzione dell’azienda di famiglia, doveva in qualche modo amare le due ruote. Uno dei nipoti di una ex-operaia della Olivetti racconta oggi che la nonna, residente in un comune a circa 4 chilometri da Ivrea, si recava tutte le mattine alla fabbrica con la bicicletta. Una sera, lasciato il posto di lavoro al Reparto Caratteri, non trovò più il suo mezzo di trasporto. Sconsolata fu costretta a tornare a casa a piedi. Al mattino successivo, svegliatasi anzi tempo, arrivò al lavoro dopo una lunga camminata: la bicicletta faceva la differenza! Giunta in fabbrica, fra le lacrime confessò al Caporeparto il furto della sua affezionata e unica due ruote. Alla fine del turno lo stesso responsabile, consolandola, la prese sottobraccio e la accompagnò all’uscita alla portineria centrale. Ad attenderla c’era Adriano Olivetti in persona, che le consegnò un nuovo velocipede!
La Bicicletta Victor
Sul catalogo della Overman, tradotto in Italiano e stampato nel 1895, leggiamo dati e caratteristiche della bicicletta Victor. Nell’introduzione della versione italiana si leggeva come la pubblicazione fosse dedicata a “tutti gli amanti del ciclismo e soprattutto a quelli che considerano il biciclo come un oggetto di uso comune e che abbisognano però di macchine solide e serie, le quali per la loro robustezza eliminino ogni pericolo pel ciclista, per la loro leggerezza, scorrevolezza ed eleganza”. Si proseguiva elencando i pregi della fabbrica, che aveva meritatamente acquisito il primo posto fra le macchine su due ruote americane, cioè le migliori del mondo, costruite interamente dalle maestranze della ditta, gomme comprese.
Ogni parte era facilmente sostituibile e in qualsiasi momento da un pezzo analogo senza aggiustamenti, con una garanzia estesa a un anno. La bicicletta, infatti, faceva largo uso di componentistica intercambiabile. Un’innovazione che permetteva al proprietario di fare le piccole riparazioni senza ricorrere a un meccanico professionista. Tutte le manovre di smontaggio erano dettagliatamente riportate nel manuale d’uso. Naturalmente l’unica chiave inglese regolabile e gli altri attrezzi, dati in dotazione in un’elegante borsa di cuoio, erano costruiti e marchiati dalla Overman stessa.
La produzione prevedeva una macchina da viaggio da uomo con misure che si adattavano all’altezza del ciclista. Le taglie erano cinque. Era prevista anche la produzione di un modello per signora in due taglie, chiamato Victoria. Per tutti i tipi di bicicletta il peso era ridotto al minimo. I modelli che avevano un telaio in acciaio pesavano 13,200 kg. Questo particolare peso per l’epoca limitato, grazie anche all’impiego di bulloni forati, distingueva la Overman dalle altre ditte produttrici. Il modello 95 per signora, dal costo di per quell’epoca non trascurabile di 100 dollari, per la tecnologia impiegata poteva essere definito “la regina della sicurezza e della leggerezza”. Furono prodotti anche due modelli di tandem. Uno per i signori e l’altro per il gentil sesso, naturalmente con telaio adattato. Il costo era di 900 dollari e la garanzia, anche in questo caso, durava un anno.
La scorrevolezza della pedalata era al massimo della gamma. Mediante un dinamometro a registrazione era stata studiata, al centesimo di millimetro, la dimensione e il numero delle sfere in “acciaio di crogiolo fucinato e temprato” dei cuscinetti del movimento centrale che, in unico blocco, era ancorato con un giunto cardanico alle pedivelle. Il meccanismo era protetto da due rondelle, una metallica e una in feltro, per evitare dannose infiltrazioni di polvere. Le pedivelle, grazie a un ingegnoso sistema “assolutamente originale”, erano allungabili per adattarsi meglio alle misure del proprietario. Nella produzione erano scartate le sfere con 1/200 di mm di differenza.
Il materiale del telaio era l’acciaio trafilato. I tubi erano assemblati con incastri muniti di rinforzo interno di metallo fucinato. La forcella, elemento molto delicato, era fusa in un unico blocco, forgiato dalla sede del mozzo fino al punto dello sterzo. I raggi erano ancorati ai mozzi su apposite sporgenze con orientamento diretto per evitarne le torsioni di trazione, responsabili altrimenti di una loro possibile rottura. La corona anteriore faceva scorrere una catena d’acciaio con passo Humber. Venivano forniti due tipi di catena, una di acciaio e una più leggera con maglie a strati di acciaio e alluminio. Ogni pezzo era collaudato per uno sforzo di trazione di 450 chilogrammi, quindi praticamente indeformabile.
I cerchi erano costruiti in acciaio lucidato o in legno di frassino. Su questi si montavano pneumatici del tutto originali, costituiti da un involucro esterno a tubulare ancorato al cerchione con una pasta adesiva, come gli pneumatici da corsa moderni. La camera d’aria veniva introdotta tramite un opercolo del cerchione stesso. In caso di foratura, si sfilava la parte interna del tubulare lasciando la copertura in sede. Sul manubrio erano montate manopole in sughero. Il freno era a tampone con molla di ritorno protetta da una guaina metallica, per evitarne il blocco da una possibile infiltrazione della polvere raccolta dalla strada. Erano previste una sella da viaggio e una più leggera, più adatta alle signore. Quella riservata ai maschi prevedeva già un avveniristico avvallamento centrale per evitare sollecitazioni al soprassella, visto anche lo stato delle strade di quei tempi.
Il tubo porta sella era in acciaio armonico forgiato a becco d’oca. Risultava elastico e solido allo stesso tempo. Conferiva una linea sottile ed elegante al mezzo, pur resistendo a un peso di oltre 120 chilogrammi. Fra gli accessori forniti di serie il campanellino, il tendi raggi e il portabagagli. A richiesta erano vendute separatamente le camere d’aria, una ruota dentata di riserva, un paio di mollette per calzoni, un tubetto per le riparazioni della gomma, un curioso fischietto bitonale con cui farsi strada, una borsa in pelle per gli attrezzi e il gonfiatore.
Sempre sul catalogo, alla fine, erano riportate alcune raccomandazioni, quali mai prestare la bicicletta a “fanfaroni, strafottenti, sventati e vanitosi”. A questi andava detto un bel “NO secco”. Pedalando per le strade, mantenendo rigorosamente la parte che l’uso locale riservava ai veicoli, era raccomandato di essere sempre gentili, osservando le regole della cavalleria e usando il campanello solo quando necessario. Era consigliato di non intraprendere lunghi percorsi se non allenati, fermandosi sempre davanti a un cavallo imbizzarrito per scongiurare disastrosi incidenti. Per evitare forature si raccomandava di tendere un fil di ferro fra i bracci delle forcelle a circa 3 mm dal copertone. Non erano ancora i commercio i levachiodi. Si concludeva invitando i fruitori a usare sempre il buon senso.
Adriano Olivetti
Dal 1950 la Olivetti iniziò a curare il Servizio Stampa al Giro d’Italia fornendo macchine da scrivere professionali per i giornalisti al seguito della Gara. Garantì inoltre duplicatori, macchine da calcolo e telescriventi del servizio Telex in grado di trasferire in tempo reale le notizie alle redazioni dei giornali.
Uno dei primi a usare quelle macchine fu Indro Montanelli quando, esiliato dalla cronaca per il suo passato politico, fu inviato al seguito della Corsa Rosa nel 1947 e 1948. Gianni Mura, che ispirandosi al suo grande maestro Gianni Brera seppe cogliere sia al Giro sia al Tour gli attimi, spesso fuggenti, di episodi che hanno fatto la storia del ciclismo, fu uno degli affezionati utilizzatori della Lettera 32. Inoltre, per anni i prodotti Olivetti furono i premi dei traguardi volanti e delle vittorie di tappa. Memorabile la partenza della prima tappa da Metanopoli, alle porte di Milano, del Giro 1957, quando l’attrice Liliana Feldman venne calata da un elicottero con una attillatissima maglia rosa e fra le mani una Lettera 22.
Vincenzo Torriani, patron e anima del Giro d’Italia dal 1949 al 1992, nel 1954 riuscì a organizzare quello che avrebbe dovuto precedere il sogno di un’Europa Federale, sul modello svizzero, nazione in cui visse durante il periodo della persecuzione nazista insieme ad Adriano Olivetti. Con l’aiuto delle testate della Gazzetta dello Sport, l’Equipe, Les Sports de Belgique e Le Parisien Libre, partì infatti da Parigi e arrivò a Strasburgo il primo Tour d’Europe. Vi parteciparono una settantina di corridori provenienti da Danimarca, Finlandia, Francia, Olanda, Italia, Polonia, Romania, Jugoslavia, Austria e Regno Unito. Si corse dal 20 settembre al 3 ottobre attraverso sette nazioni. Vinse, a trentotto anni, Primo Volpi, toscano, grazie al vantaggio accumulato nella prima tappa a cronometro. Gli organizzatori avevano un indubbio bisogno di finanziatori, fra questi spiccò il nome di Adriano Olivetti. Fedele all’amicizia con Torriani, il suo contributo fu assai cospicuo: cinquecentomila franchi svizzeri!
Negli anni d’oro dell’azienda, i servizi sociali ospitarono grandi personaggi della cultura e dello spettacolo. Nelle vie di Ivrea era facile incontrare anche grossi personaggi dello sport. Fra questi i campioni del ciclismo di quel periodo.
Fausto Coppi venne in più occasioni a Ivrea. Dopo il successo al Mondiale di Lugano, nel 1953, il Campionissimo e Riccardo Filippi furono ospiti della Olivetti. Hugo Koblet, accompagnato da Learco Guerra, suo direttore sportivo alla elvetica Cilo, festeggiò con i tifosi eporediesi la vittoria al Giro d’Italia del 1950.
La sezione sportiva del Gruppo Olivetti in quegli anni aveva una squadra corse, da cui emersero dei buoni dilettanti che passarono poi al professionismo. Franco Balmamion, campione canavesano, aveva visitato la catena di montaggio della Lettera 22 dopo il suo secondo successo consecutivo alla Corsa Rosa, nel 1963. Jacques Anquetil e Felice Gimondi fecero tappa alla Olivetti nel 1967. Anche un non più giovane Costante Girardengo seguiva sulla sua spider rossa le corse organizzate dal Gruppo Sportivo: il Gran Premio Olivetti, la Coppa Comunità e il Trofeo Serse Coppi.
Gino Bartali fu a Ivrea la prima volta nel 1949. Reduce dal Giro del Piemonte, visitò gli stabilimenti Olivetti dopo aver sfidato Giancarlo Astrua in una kermesse sulla pista in terra battuta dello stadio cittadino. Provò anche una delle biciclette utilizzate per gli spostamenti del personale di sorveglianza e dei fattorini della Olivetti. Quei mezzi particolari erano prodotti dalla Frejus di Torino. Il telaio e le ruote erano di una misura ridotta, 24 pollici, per rendere più agevole il passaggio nelle corsie delle linee di produzione e nei reparti. A questa misura ovviava un lungo tubo della sella. Essendo la fabbrica disposta su una vasta area con oltre dieci chilometri di strade interne, queste biciclette attrezzate con una guarnitura a pochi denti e un pignone di grandezza insolita consentivano i rapidi spostamenti anche sulle rampe che salivano ai tre piani delle Officine, la cui pendenza superava il dieci per cento. Potevano essere definite le antenate della Graziella Carnielli, prodotta dal 1964.
Un triste legame fra Olivetti e il ciclismo ce lo offre ancora la storia italiana degli Anni ’60 e rappresenta la fine del rapporto fra Olivetti e le due ruote. Nel 1960, il due di gennaio, all’ospedale di Tortona, moriva un ancora giovane Fausto Coppi, per una forma di malaria misconosciuta. Fu un fatto epocale nella storia del ciclismo. Alla sua morte seguì a febbraio quella di Adriano Olivetti, stroncato ufficialmente da un malore in uno scompartimento di un treno partito da Milano verso Losanna. In entrambi i casi il mondo intorno a questi personaggi si fermò, quasi a mettere un suggello sulle vite di questi due grandi uomini. Entrambi ci lasciarono quando in loro era ancora viva l’idea di nuovi progetti. Coppi con Bartali e la San Pellegrino, Adriano Olivetti con il primo calcolatore elettronico al mondo: l’ELEA 9000.
Liberamente tratto da: “Olivetti. Una storia su due ruote”, Paolo Ghiggio – Edizioni Hever, Ivrea 2023